In Finlandia, Svezia e Olanda più di un lavoratore su quattro è in «remote working». Sono soltanto 800 mila le persone che lavorano da casa. Entro il 2011 si prevede una crescita del 7%
Cellulare e pc portatile. E il lavoro si può svolgere anche dal tavolo di casa |
Eppure l’Unione Europea favorisce questa modalità di lavoro e dal 2002, anno in cui è stato raggiunto un accordo quadro sul telelavoro, fa pressione sui Paesi membri affinché lo diffondano. Nel giugno del 2004 in Italia è stato firmato un accordo interconfederale, siglato da Confindustria, sindacati compatti e altre 19 associazioni imprenditoriali, che dà la possibilità, ma non il diritto o l’obbligo, di lavorare da casa, garantiti e tutelati allo stesso modo dei lavoratori in ufficio. Sono passati quattro anni e mezzo.
Per quali motivi il telelavoro da noi non decolla? Ancora un esempio dell’immaturità dell’Italia, si potrebbe pensare. A «difesa» dell’Italia va prima, però, ricordato che il nostro modello economico non si presta del tutto a questa modalità di lavoro. «La nostra economia si basa molto sul manifatturiero e in questo tipo di industria la presenza fisica del lavoratore è ineliminabile, perché il lavoro è manuale — spiega Luca Solari, docente di Organizzazione aziendale e Sviluppo delle risorse umane all’Università Statale di Milano —. La nostra struttura produttiva è costituita prevalentemente da Pmi, piccole e medie imprese, e di solito gli impiegati vivono vicino all’azienda». Ma le ragioni del ritardo sono anche altre e chiamano in campo le resistenze culturali e il gap tecnologico. «In generale — prosegue Solari — al datore di lavoro non piace il fatto che un suo dipendente non sia presente fisicamente perché non è possibile controllarlo, vedere che cosa sta facendo. In Italia siamo ancora ancorati al modello gerarchico burocratico, si tende a voler avere un controllo fisico della presenza del lavoratore e del tempo lavorato». In pratica, è opinione dominante che il lavoratore, se sta al suo posto di lavoro, produce di più e meglio.
Il telelavoro non è visto di buon occhio nemmeno da chi si occupa della difesa dei lavoratori, i sindacati. Per i quali è addirittura una questione «superata». «Le persone hanno bisogno di parlarsi e di vedersi — dice Claudio Treves, responsabile del dipartimento Politiche attive del lavoro della Cgil —. Non è tutto risolvibile con la webcam e i messanger. E infatti i milioni di telelavoratori che aveva previsto l’Ue non sono arrivati». Dello stesso parere anche un sindacato con orientamenti politici diversi. «In Italia non è un argomento che ha mai preso concretezza, se ne è parlato anni fa ma se ne parla sempre meno, anche in ambiente sindacale — dice Renata Polverini, segretario generale della Ugl — . Sarà anche per la debolezza che abbiamo nelle nuove tecnologie. Ma di si curo è perché abbiamo un approccio culturale diverso rispetto al lavoro. Per noi è un elemento centrale anche in termini di relazioni sociali, di integrazione e di crescita professionale. Il telelavoro riduce queste possibilità. E’ positivo come modalità per le persone che hanno handicap fisici e in momenti in cui si ha necessità di rimanere a casa, per esempio la maternità. Ma io lo considero una tipologia di lavoro che non include, mentre l’inclusione è una componente fondamentale del lavoro».
Lavorare sempre da soli rischia di far sentire la persona isolata e abbandonata e, alla lunga, a portare forme di rigetto verso questa modalità. «Come è avvenuto negli Stati Uniti. Per questo, adesso si sa che il tempo lavorato da remoto deve essere soltanto una parte del tempo totale e che è importante mantenere un contatto diretto con l’azienda. Il nostro programma prevede, infatti, che le persone svolgano da remoto al massimo due giorni la settimana», spiega Rodolfo Landini, direttore Servizi centrali Italia, Grecia, Centro ed Est Europa, Russia e Medio Oriente di Accenture, una società di consulenza direzionale che ha condotto di recente una ricerca sul fenomeno e in dicembre ha organizzato il convegno «Remote Working – Nuove tecnologie e organizzazione del lavoro».
Il gap tecnologico, i costi per «attrezzare » l’abitazione del telelavoratore sono l’altro grande ostacolo alla diffusione del telelavoro. «In Italia la diffusione della tecnologia è ancora bassa — dice Solari — . Ma non sono soltanto la perdita di controllo diretto o i costi a frenare i datori di lavoro». «Il punto fondamentale — spiega Treves — è che il telelavoro è una modalità di prestazione che modifica la struttura e l’organizzazione dell’impresa e questo non è nelle corde dell’imprenditoria e dell’amministrazione pubblica italiane». Non è un caso se le aziende che offrono maggiormente la possibilità di lavorare da remoto appartengono al settore delle telecomunicazioni come Telecom Italia, che ha cominciato l’esperienza nel 1998 e a cui è stata riconosciuta la qualità di best practice a livello nazionale e internazionale.
Eppure si risparmia. E non mancano le esperienze positive. «Stiamo cambiando sede — racconta Landini — e l’incremento dei nuovi spazi è meno che proporzionale alla crescita del personale perché, grazie al fatto che parte dei dipendenti che operano in modo stanziale lavora in remote working, abbiamo potuto razionalizzare gli uffici in funzione del modo di lavorare. Per noi è un risparmio sui costi per la sede. Per il lavoratore questo significa un guadagno in termini di tempo e di benzina perché non deve viaggiare per arrivare in ufficio. British Telecom, per fare un esempio, dopo dieci anni di telelavoro ha risparmiato 300 milioni di euro di spesa per gli immobili e 1.800 anni di tempi di trasferta per il personale».
E a guardare al rendimento del lavoratore il guadagno è sicuramente ancora a vantaggio dell’azienda. «Le ricerche — conferma Solari — indicano che il telelavoratore rischia di lavorare troppo». Se ne sono accorte le Poste Italiane, che hanno avviato una sperimentazione nel contact center e contano in due anni di avere 500 dipendenti in telelavoro. «L’ aumento della produttività media dei nostri telelavoratori tocca il 30% — dice Ruggero Parrotto, responsabile della formazione, comunicazione interna dell’azienda —. Abbiamo avuto una riduzione dei giorni di malattia e dell’assenteismo del 25%». L’esperimento di telelavoro è andato bene, tanto che a settembre è stato lanciato un altro progetto nel settore dell’ informatica. «Venti referenti informatici che controllano i grossi calcolatori lavorano da remoto — prosegue Parrotto —. Il successo del primo progetto ha vinto la resistenza dei capi, che sono abituati ad avere i lavoratori vicini».