La prima udienza a milano il 3 febbraio. Il procedimento per il video di cyberbullismo del 2006. L’associazione: «Non vogliamo la censura»
MILANO – In Italia i precedenti processuali non fanno giurisprudenza. Eppure la sensazione è che quanto verrà fuori dal processo che vede imputati quattro dirigenti di Google per il cosiddetto “caso Vivi Down” stabilirà un forte punto di riferimento su quello che si potrà fare, e non si potrà fare, in Rete in Italia.
Il “caso” in questione risale al 2006 e riguarda un video caricato su Google Video – servizio di video sharing al pari di YouTube, sempre di proprietà di Mountain View – dove si vede un ragazzo affetto da Sindrome di Down sbeffeggiato e picchiato da alcuni compagni di classe. Un caso particolarmente odioso di cyberbullismo che ha fatto partire una denuncia dall’associazione milanese Vivi Down. Pochi giorni dopo era scattata una perquisizione nella sede di Google Italia e due anni dopo, nel novembre del 2008, è arrivata la notifica: quattro dirigenti della multinazionale americana saranno processati per diffamazione e violazione delle tutele sulla privacy .
La prima udienza sarà martedì prossimo, il 3 febbraio, e l’attesa è molta. E non solo da noi: del caso si sono occupate le principali testate giornalistiche di tutto il mondo, anche perché, come spiegano da Google Italia, «non ci sono casi simili in altri Paesi occidentali». Motivo per il quale Google Italia ha voluto incontrare alcuni giornalisti per poter spiegare la propria posizione in merito al caso, prima che la parola passi definitivamente alle sedi del tribunale di Milano.
Un manifesto di presentazione dell’associazione Vivi Down |
Le ragioni sono due. La prima, che potremmo definire “tecnologica”: ogni minuto nel mondo vengono caricate sul sito di video sharing qualcosa come 13 ore di video, che non potrebbero tecnicamente essere soggette a una “visione informata” da parte del provider. L’altra ragione, “filosofica”, è quella su cui punta Google Italia: «Noi forniamo gli strumenti agli utenti, la responsabilità di quello che mettono online è loro», specifica Marco Pancini. «Non potremmo mai arrogarci il diritto di scegliere cosa può andare bene e cosa no sulla Rete. Con questo non vogliamo sfuggire alle nostre responsabilità, ma è importante capire che ci troviamo di fronte a una rivoluzione culturale e noi, come Google, siamo i pionieri di questa innovazione». L’idea forte è proprio quella delle conseguenze sul mondo Internet di questo e altri casi, diversi, che vertono sulla libertà dei contenuti che girano sul Web, dunque la libertà della Rete in generale.
Ma le accuse rimangono: concorso in diffamazione, «perché non impedire un evento equivale a cagionarlo», spiega tecnicamente Guido Camera, l’avvocato che segue la causa per conto di Vivi Down. Quindi il non corretto trattamento sia dei dati personali sia della loro protezione. «Con in più la responsabilità civile», continua l’avvocato Camera, «di non aver rimosso il video dal sito se non dopo l’intervento della polizia giudiziaria». Il filmato in questione, infatti, è rimasto a disposizione degli utenti di Google Video per quasi due mesi, dall’8 settembre al 7 novembre del 2006, malgrado diverse segnalazioni inviate dagli utenti stessi.
«La nostra battaglia, perché di questo si tratta», spiega Camera, «non è finalizzata a ottenere un risarcimento, e certo non la portiamo avanti in nome di una censura su Internet. Vogliamo invece batterci contro un sistema, nuovissimo e dalle molte implicazioni sociali, che riteniamo fortemente migliorabile nelle molte zone d’ombra che ancora presenta». Secondo Vivi Down, dunque, il processo contro Google sarebbe importante anche in caso di sconfitta in aula. Perché anche così si parla, si è parlato e si parlerà del tema, e del buco normativo che a riguardo dei contenuti online abbiamo in Italia. Conclude Camera: «Potremmo anche arrivare, nel corso del dibattito, a un intervento del Parlamento per modificare o comunque migliorare le leggi italiane».
L’articolo pubblicato nel 2006
il filmato è rimasto in rete dall’8 settembre al 7 novembre del 2006. Video online del down vessato a Torino. A giudizio quattro manager di Google. Dovranno rispondere di concorso in diffamazione e violazione della legge sulla privacy
MILANO – Quattro manager di Google citati a giudizio: sono accusati di concorso in diffamazione e violazione della legge sulla privacy in relazione al video, disponibile su Internet dall’8 settembre al 7 novembre del 2006, che mostrava gli abusi subiti da un ragazzo down dai compagni di scuola nella sua classe di un istituto tecnico di Torino.
LA DENUNCIA DI VIVIDOWN – Il Pm di Milano, Francesco Cajani, ha chiuso ora le indagini e firmato il decreto di citazione diretta a giudizio per i quattro dirigenti. I quattro, David Carl Drumond, all’epoca dei fatti presidente del Cda di Google Italia, George De Los Reyes, membro del Cda e poi adelegato di Google Italia, Peter Fleitcher, responsabile delle politiche sulla privacy per l’Europa di Google Inc e Arvind Desikan, responsabile del progetto «Google video» per l’Europa. A dare il via all’indagine era stata la denuncia dell’Associazione Vividown, dovranno comparire, il prossimo 3 febbraio, davanti al giudice monocratico della Quarta sezione penale di Milano, per difendersi dalle accuse.