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«Non ci spostiamo, ci sono i nostri gatti» Le ultime due donne della città distrutta

 

Sono almeno un migliaio, soprattutto anziani, quelli che non vogliono lasciare le case. Elvira e Caterina, madre e figlia, due delle irriducibili che non vogliono andarsene: la nostra vita è qui

 

Madre e figlia guardano la tv nel gazebo di un bar che i gestori hanno lasciato a loro disposizione (Sestini)

L’AQUILA—«Chi, io? Ma non è vero. Cioè, insomma. Diciamo che sono salita solo per dare da mangiare ai gatti, prendere le medicine di mamma, la mozzarella e la Simmenthal dal frigo, lo zucchero dal ripiano, qualche vestito dall’armadio, innaffiare le piante, già che c’ero mi sono lavata, poi sono scesa qui sotto. Tutto di fretta, si capisce». Il finanziere con il casco da minatore scuote la testa, sconsolato. Allarga le braccia e torna sui suoi passi. Davanti alla faccia da monella di Caterina l’unica cosa da fare è arrendersi.

Ogni mattina le chiedono di andare in tenda, lei e sua madre Elvira. La risposta non cambia, non cambierà. «Grazie, ma non vogliamo allontanarci. Se esci non rientri, lo dice anche un proverbio abruzzese. E poi senza sistemazione per Leone, Coccolino, Fuffetto, Miciotto e Tarchiatello, i nostri gatti, non possiamo muoverci. Gradisce un caffè?». Sono rimaste. Gli unici due esseri umani che ancora vivono nel centro di L’Aquila, due chilometri quadrati di macerie e rovine, che loro guardano dall’alto di piazza San Bernardino, il punto più alto della città vecchia. Tutti gli altri sono stati sfollati. Elvira e Caterina Marzoli non ne hanno neppure parlato. Non è stata una decisione, ma un gesto naturale e necessario, come respirare. Rimaniamo qui. La casa che si affaccia sulla scalinata di San Bernardino, l’appartamento al piano terra, le cornici con le foto di Piero, marito e papà amatissimo, le finestre affacciate sulla basilica, i loro gatti, il cane Chicco, trovato sette anni fa nella piazza su cui da 45 anni si dipana la loro esistenza. Le loro radici, i loro oggetti. Quello per cui sentono valga la pena di vivere.

Madre e figlia si guardano con tenerezza, quasi a confessare una marachella. Tecnicamente sono inattaccabili. La casa è diventata una dépendance dalla quale si entra e si esce, loro «abitano » il gazebo di legno del bar di fronte alla basilica a dieci metri dal portone. Il proprietario ha lasciato le chiavi del bagno e al mattino passa per fare il caffè. Dormono nella Panda grigia parcheggiata sotto casa, a distanza di sicurezza. Quando ce n’è bisogno, Caterina sale in casa. Non hanno bisogno di altro, di nessuno. Si fanno compagnia, si bastano. Elvira si muove con fatica, due ernie all’anca non operabili, ha 82 anni e uno sguardo pieno di tenerezza. Ancora si commuove nel ricordare il suo Piero, che faceva il portiere di notte al Gran Panorama, un albergo che non c’è più. Se n’è andato nel 1992, tradito da un male incurabile. Riesce a mettersi in piedi reggendosi su un bastone, poi lo solleva per disegnare un cerchio intorno alla piazza.

«Mio padre era il barbiere di via Roma, abitavamo sopra al negozio. In quella strada ho conosciuto mio marito. Ci siamo sposati nella chiesa di San Pietro, a metà della via, dove sono stata battezzata, comunicata e cresimata, e poi ho battezzato e cresimato Caterina. Quarantacinque anni fa ci siamo trasferiti in questa casa, a cento metri da quella dove vivevo prima. Ho sempre fatto la sarta per la gente del quartiere. Non mi sono mai allontanata. Dove vuole che vada, adesso, alla mia età?».

Gli abruzzesi hanno un rapporto forte con le loro case, con la «roba» che ci sta dentro, considerata il riassunto di una vita. «Volontà ferma, persistenza e resistenza», incarnate nell’amore per la propria abitazione. Benedetto Croce considerava questo attaccamento come una conseguenza dell’emigrazione, di una vita stentata che rendeva ancora più necessario e idealizzato il sogno di un nido a cui ritornare. È un tratto distintivo antico e bellissimo, ma oggi è soprattutto un problema, uno strazio ulteriore. Secondo la Croce rossa, nei piccoli paesi intorno a L’Aquila ci sono almeno un migliaio di persone, in prevalenza anziani, che non vogliono abbandonare la loro dimora. Alcuni si sono accampati davanti alle macerie, per vegliarle.

A San Pio delle Camere, Enrichetta, 86 anni, ha preso a bastonate i volontari della Protezione civile. Cercavano di farla uscire da una casa con una parete crollata per metà. «Se ne occupi la forza pubblica», hanno detto siglando la resa. Ce ne sono tante di storie come queste, piccole ribellioni che sembrano incoscienza ma rappresentano anche un tentativo di sopravvivenza. Quassù in piazza San Bernardino, la famiglia Marzoli si prepara per la notte. Nel gazebo adibito a salotto c’è anche la televisione. Elvira lo ha visto al tg, che via Roma e la chiesa di San Pietro sono state cancellate, solo detriti e calcinacci. Ma non è vero che il suo mondo è stato cancellato, il suo mondo vive negli oggetti che stipano questo appartamento, anche nelle sue mura umide. Una parete è crepata, l’armadio con i vestiti ha attraversato la stanza da letto per schiantarsi sulla parete opposta. Caterina è nata nel giugno del 1958, durante l’ennesimo terremoto che ha colpito L’Aquila. «Abbiamo paura, certo. Martedì si sono spaventati anche i gatti, non hanno toccato le ciotole. Adesso gli do il latte. Ma faccio presto, prometto». Dopo cinque minuti, esce dal portone tenendo in mano un libro di Forattini e i ferri da uncinetto per la copertina che sta facendo per la figlia di una sua amica. «Così faccio passare il tempo». E il suo sorriso non sembra un segno di incoscienza, ma di speranza.

Marco Imarisio

«Non ci spostiamo, ci sono i nostri gatti» Le ultime due donne della città distruttaultima modifica: 2009-04-09T10:57:00+02:00da
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