Remo Mandolesi 64 anni, da 17 lavora a questo progetto, seguirà il telescopio lanciato dall’Esa in Guyana
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Remo Mendolesi |
KOUROU (Guyana Francese) — A volte i sogni si realizzano. «Sì, è vero, e ci ho sempre creduto, nonostante le difficoltà. Adesso finisce una storia durata diciassette anni e ne inizia un’altra per la quale mi preparo da una vita». Reno Mandolesi, 64 anni, capelli bianchi e sguardo tornato sorridente dopo la tensione per il lancio, ha appena visto alzarsi nel cielo della foresta amazzonica e volare nello spazio il grande razzo Ariane-5 con nascosti nella punta i due telescopi cosmici Herschel e Planck dell’Agenzia spaziale europea Esa. Mandolesi, direttore dell’Istituto di fisica cosmica dell’Istituto nazionale di astrofisica a Bologna, è l’italiano che viaggerà nel tempo perché sotto la sua guida è nato uno dei due strumenti imbarcati su Planck con i quali scrutare nelle nostre origini. L’altro è il francese Jean-Loup Puget dell’Institut d’Astrophysique Spatiale di Orsay. Alle loro spalle ci sono 400 scienziati in tutta Europa. «In realtà — precisa Mandolesi — si tratta di due parti di uno stesso occhio, che permetteranno di raccogliere una precisa fotografia dell’universo 380 mila anni dopo il Big Bang, quando era appena grande come un’arancia, formato da atomi di idrogeno, particelle varie e molta radiazione».
LA SCELTA – L’impresa non è stata facile. «Proposi l’idea all’Esa ancora nel 1992. Quando venne scelta quattro anni dopo, fra 55 giunte da tutti i Paesi, brindai: è stato uno dei momenti più belli. Non tutto, però, è filato liscio». Vedere che cosa è successo poco più di 13 miliardi di anni fa, perché tanto ha impiegato la luce ad arrivare sino a noi, è stato, innanzitutto, una sfida tecnologica. «Mi ero innamorato dell’argomento sentendo che negli Stati Uniti Penzias e Wilson avevano ottenuto, per caso, a metà degli anni Sessanta una grande scoperta: l’universo era permeato della radiazione fossile rimasta dopo il Big Bang. Vi dedicai la tesi di laurea e da allora divenne la ragione della mia esistenza». Ma era solo l’inizio. «Avevo stretto un buon rapporto di collaborazione con l’americano George Smoot. Le cose, però, cambiavano quando lui decideva di costruire con la Nasa il satellite Cobe per ottenere un’immagine di quel mondo primordiale di cui la radiazione fossile era la trama. Ci riusciva e nel 2006 conquistava il Premio Nobel».
LA SFIDA – La sfida era solo alle prime battute; il risultato serviva soprattutto a confermare un’idea. Bisognava dunque andare oltre. A questo (dopo un secondo piccolo passo compiuto da Wilkinson, un altro satellite Nasa) risponde Planck, costato 700 milioni di euro, costruito dalle industrie europee guidate da Thales Alenia Space e integrato anche nelle camere bianche di Torino. Lassù, in un punto lontano 1,5 milioni di chilometri dalla Terra il telescopio misurerà variazioni di temperatura di un milionesimo di grado. «Così— aggiunge Mandolesi — riuscirà a mostrare in dettaglio la struttura dell’Universo con l’obiettivo di spiegare pure la natura della materia e dell’energia chiamate ‘oscure’, perché se ne ignorano le caratteristiche».
LE DIFFICOLTÀ – Ma in 17 anni ci sono state anche sorprese spiacevoli. «Purtroppo ad ogni cambio di amministrazione dell’Asi che sosteneva la partecipazione al progetto europeo con 29 milioni di euro, tutto vacillava ed era rimesso in discussione. Intorno al Duemila ho temuto il peggio. I finanziamenti venivano bloccati per due anni: ero terrorizzato di dover chiudere. Venne in soccorso Thales Alenia Space che, proseguendo comunque il lavoro, ci permise di sperimentare lo strumento nei suoi laboratori di Milano. Ciò consentì di rispettare gli impegni europei e quando venne installato sul satellite funzionò alla perfezione. Ho un ricordo di grande felicità: dallo spettro del baratro alla vittoria. Poco dopo, purtroppo, venni sconfitto — prosegue Mandolesi —. Si doveva aggiungere all’apparato una nuova parte ad altissima tecnologia e doveva essere italiana. Invece l’Asi lo impediva lasciando che la fornissero gli americani. Il rifiuto mi fece molto male». Superati gli ostacoli, ora è il momento della scienza e nel team europeo di Planck ci sono anche Marco Bersanelli dell’Università di Milano e Andrea Zacchei che all’Osservatorio di Trieste coordinerà il centro dove saranno raccolti i risultati. Si aspettano scoperte.
Giovanni Caprara