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La rivoluzione di Twitter manda in affanno i media

 

Giornali e tv costretti a inseguire il microblogging. Le reti sociali impongono una ridefinizione del giornalismo

 

NEW YORK – Vai, col compu­ter o col telefonino, su Twitter, la rete basata su micromessag­gi (140 caratteri al massimo) che sta esplodendo negli Usa (un milione di utenti un anno fa, 17 oggi) e nel resto del mon­do, e sprofondi nei più noiosi diari di vita quotidiani che si possano immaginare: gente che racconta «in diretta« a gruppi di amici, ai genitori o a fan (nel caso dei messaggi in­viati da star dello spettacolo o dello sport) cosa sta facendo, cosa sta comprando al super­mercato, a che ora andrà a prendere i figli a scuola. Ma quando il jet della US Air am­mara sul fiume Hudson o quan­do c’è il terremoto a Los Ange­les, la notizia arriva coi messag­gi di Twitter molto prima che sugli schermi della CNN o sui terminali dell’Associated Press: un cambiamento che co­stringe i giornalisti a dotarsi di una nuova «cassetta degli at­trezzi » per affrontare rivoluzio­ni tecnologiche che stanno cambiando il modo di fare in­formazione. Poi arriva la rivolta in Iran e scopri che, con i corrisponden­ti stranieri messi alla porta dal regime degli ayatollah, Twitter diventa l’unico vero canale di informazione su quello che sta accadendo nel Paese: migliaia di ragazzi armati di cellulare che trasmettono brevi messag­gi e immagini della sommossa e della repressione.

(Reuters)

E che con Twitter sfuggono alla censura del regime che può oscurare le tv e «militarizzare» i siti Inter­net, ma non riesce a bloccare la rete di micromessaggi che, per funzionare, non ha biso­gno di un indirizzo di posta elettronica. Così il fotogram­ma della morte di Neda rimbal­za su milioni di terminali di tutto il mondo, diventando l’immagine simbolo della rivol­ta. Per l’informazione è un vero cambio di paradigma: fare gior­nalismo diventa (anche) saper dominare le nuove tecnologie, aggirare i muri della censura, ma anche filtrare fonti la cui at­tendibilità è tutta da dimostra­re, visto che, per evitare le «re­tate » della polizia elettronica, devono restare ignoti sia l’iden­tità di chi fornisce la notizia sia il luogo dal quale parte il messaggio. Il cronista deve do­tarsi di nuove antenne e di fil­tri per valutare il flusso di ma­teriale prodotto dal cosiddetto «citizen journalism»: il volon­tariato dei cittadini che produ­cono informazione. La tecnologia diventa la chia­ve di tutto: i governi autoritari cercano di imbrigliarla. Pechi­no all’improvviso impone a Go­ogle di bloccare l’accesso dei suoi clienti cinesi ai siti stranie­ri e stabilisce che tutti i nuovi «personal computer» venduti nel Paese devono incorporare un «poliziotto elettronico»: for­malmente un filtro antiporno, di fatto un disabilitatore dell’ accesso a tutti i siti che tratta­no argomenti che hanno rile­vanza politica. A Teheran il go­verno teocratico, che nei mo­menti di maggior tensione arri­va a disattivare l’intera rete te­lefonica, investe massiccia­mente su sistemi di controllo di tutte le informazioni che cir­colano su Internet. Tecnologie fornite da gruppi industriali europei, soprattutto Siemens e Nokia.

Una guerra fatta di filtri e controfiltri, perché per ogni lucchetto elettronico che viene serrato, i «geni» della rete si sforzano di trovare un modo per aggirare la censura. La rapida evoluzione tecno­logica spiazza i regimi autorita­ri, ma mette in affanno anche i canali informativi tradizionali: dopo secoli di carta e inchio­stro, i giornali avevano appena cambiato rotta, ospitando an­che «blog» sui loro siti, quan­do è esploso il fenomeno delle reti sociali, Facebook in testa. Negli Usa giornali e tv hanno cominciato ad adattarsi a que­sta nuova realtà quando è esploso il fenomeno dei micro­messaggi. «Davanti a Twitter», sostie­ne Sree Sreenivasan, «guru» dei nuovi media e docente del­la scuola di giornalismo della Columbia University, «Face­book diventa una roba da Di­ciannovesimo secolo». Il «mi­croblogging » può improvvisa­mente trasformare gente che ha macinato per mesi e mesi solo messaggi banali, in repor­ter, fotografo, cameraman. Co­sì anche il lancio, la settimana scorsa negli Usa, dell’iPhone di ultima generazione, diventa un momento rilevante della battaglia per la ridefinizione dei rapporti di forza nel nuovo «ecosistema» dell’informazio­ne: un terminale capace di ri­prendere immagini molto det­tagliate e di rendere la tv piena­mente accessibile dal cellulare. Tra le varie rivoluzioni attra­versate dai media – crisi dei giornali di carta, crollo delle entrate pubblicitarie dei mag­giori gruppi editoriali e feno­meni come YouTube che insi­diano il mercato televisivo ­quella dei «social network», unita alla diffusione dei telefo­nini «intelligenti», è sicura­mente la novità che sta scon­volgendo in modo più radicale il mondo dei «media».

Mentre gli editori si chiedo­no come affrontare la trasfor­mazione delle notizie in «com­modity » che tende ad azzerar­ne il valore economico, i gior­nalisti sono sommersi dai deca­loghi su come selezionare e usare le nuove fonti, evitando le trappole (brillanti reportage sul Dalai Lama su Twitter sal­vo scoprire, alcuni giorni do­po, che si trattava di un falso) e partecipano a corsi e campi estivi dedicati allo studio dei nuovi «media». Dove le novi­tà, più o meno inquietanti, non finiscono mai: a chi gli chiedeva come sia possibile va­lutare l’attendibilità di un cer­to flusso di micromessaggi, qualche tempo fa il cofondato­re di Twitter, Biz Stone, ha ri­sposto che forse in futuro di­sporremo di un «algoritmo del­la credibilità», basato su un esame grafico dell’attendibili­tà delle notizie fornite da una certa fonte in un dato arco di tempo



La rivoluzione di Twitter manda in affanno i mediaultima modifica: 2009-06-24T12:38:23+02:00da
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