È stata inventata a Milano, in Italia ne esistono due. In Australia e Nuova Zelanda ha salvato l’86% dei pazienti
MILANO — In Australia e in Nuova Zelanda ha salvato molte vite (l’86% finora su 100 e 60 casi, rispettivamente, di polmonite da influenza A), a Monza si sta col fiato sospeso, ma sembra che il ragazzo ventiquattrenne ce la farà. Più che di una macchina si tratta di una metodica (si costruisce ad un costo moderato assemblando varie componenti, pompa, cannule e membrana ed altro) che, utilizzando la circolazione extracorporea, asporta l’anidride carbonica mentre garantisce l’ossigenazione.
In pratica, un sistema che mette a «riposo» il polmone, anziché costringerlo forzatamente a lavorare come si è fatto per molto tempo con la ventilazione meccanica, producendo più danni che vantaggi. Un’idea portata avanti fin dagli anni Settanta dall’équipe di Luciano Gattinoni, direttore del dipartimento di anestesia e rianimazione dell’ospedale Maggiore-Policlinico di Milano (sua la pubblicazione sulla rivista Lancet dei primi tre casi curati con successo nel lontano 1980). Ipotesi verificata e applicata poi nella pratica clinica negli anni Novanta, principalmente nelle polmoniti gravissime, ma anche in traumi del torace tali da compromettere in modo significativo il polmone. Ora la Ecmo (acronimo inglese di ossigenazione extra-corporea con polmone a membrana) è saltata alla ribalta come un «santino» perché si sta rivelando utilissima nella polmonite provocata dal virus dell’influenza A. «Una malattia gravissima soprattutto nei soggetti giovani, sotto i trent’anni — ci informa Gattinoni — perché colpisce l’interstizio polmonare, ovvero il tessuto che separa gli alveoli, gli ‘acini d’uva’ dove avvengono gli scambi respiratori fra l’aria e i vasi sanguigni. Polmoniti che non migliorano con i farmaci, né con l’ossido nitrico; sostanzialmente disastrose e intrattabili. La metodica riesce dove tutto il resto non ha effetto».
Come è arrivato a questo nuova idea del «riposo» polmonare? «Verso la fine degli anni Settanta — risponde l’esperto — lavorando sugli animali abbiamo scoperto che se il polmone artificiale riesce ad asportate l’anidride carbonica, la ventilazione, ovvero il volume di aria che circola nei polmoni in un minuto, si riduce in maniera proporzionale; arriva addirittura a fermarsi se la rimozione del gas sfiora il 100 per cento. In contemporanea, l’ossigenazione viene garantita da un catetere posizionato nella trachea. Alla fine il polmone è sostanzialmente ‘fermo’, una condizione che lentamente gli permette di guarire o, per lo meno, di riprendersi » . Un concetto innovativo che ha stentato a farsi strada, tanto che in Italia esistevano finora solo due prototipi, una all’ospedale di Monza, l’altro al Policlinico San Matteo di Pavia. Ora si parla — lo ha annunciato pochi giorni il governatore della Regione, Roberto Formigoni — di dotare la Lombardia di ben 14 di queste apparecchiature, nei principali ospedali, per essere pronti ad affrontare un’eventuale emergenza qualora dilaghi l’influenza A, con le sue complicazioni polmonari.
Un’azienda multinazionale ha realizzato una macchina capace di fare le stesse funzioni dei due prototipi, ma miniaturizzata al punto da essere portatile. Ha però il difetto di essere costosa, nell’ordine dei cinquantamila euro, contro i diecimila dei prototipi. Ma considerazione economiche a parte, ha senso la corsa alla macchina salva-polmoni? «Dal disinteresse all’eccesso di zelo — commenta Gattinoni — . Se non c’è la preparazione idonea a mettere in atto i principi del ‘riposo’ polmonare, direi che serve davvero a poco ». «La formazione degli operatori è fondamentale — ribadisce Roberto Fumagalli, primario della divisione di anestesia e rianimazione dell’ospedale San Gerardo di Monza — . Prima di tutto bisogna imparare ad utilizzare la macchina in modo appropriato. Un training che deve coinvolgere anche il personale paramedico». «Sono convinto — conclude Gattinoni — che la linea giusta non sia quella di dotare dell’apparecchiatura un gran numero di ospedali. Se non c’è il personale addestrato si rischia di fare un buco nell’acqua. Mi pare più razionale pensare a 2-4 rianimazioni per ogni Regione addestrate a far fronte a questi casi».
Franca Porciani
Fonte: Corriere della Sera