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Haiti: ville, Suv e mercati di fiori È rimasta intatta la città dei ricchi

 

Un italiano aveva due gelaterie: «una è sotto le macerie, l’altra non ha un graffio». Aperti i bar in stile coloniale e i ristoranti. E al resort sulla spiaggia lo staff serve champagne da 153 dollari

PORT-AU-PRINCE – La fortuna ha sempre buona mira. Perché non è vero, alla fine, che il più tremendo terremoto della storia di Haiti l’ha distrutta tutta: un pezzettino della capitale Port-au-Prince si è salvato. Al cento per cento. Come ci fosse un vetro antiurto in mezzo: fin qui macerie, morte e distruzione ovunque; poi giri un angolo, e da lì in poi niente. Non nel senso che non ci sono vittime: non è caduta una tegola. I bar stile coloniale sono aperti, i ristoranti pure, persino il sottilissimo campanile della chiesa di Saint Pierre è intatto fino alla cima. E i più fortunati tra i fortunati continuano ad aprire il cancello ai visitatori mandando avanti un gentile cameriere in divisa: né più né meno che prima di una settimana fa.

Benvenuti nella «upper» Petionville: quella dei ricchi, degli stranieri, delle ville col parco e dei Suv. Sotto di loro, a perdita d’occhio in fondo alla valle, Port-au-Prince è una tendopoli con mezzo milione di disperati in cerca di vita. Ma nella Petionville alta no: qui la vita continua. Senza scosse. Non è stata questione di edilizia ricca o povera: altri quartieri se non altro benestanti della capitale, per esempio la upper Turgeau, la loro razione di distruzione l’hanno democraticamente ricevuta. E la parte bassa della stessa Petionville, una collina che in pratica chiude la città a sud-est, è sbriciolata come tutto il resto. È proprio che il sisma, per un gioco orografico dei suoi, sembra essere rimbalzato indietro prima di arrivare in cima: e così, lassù, tutti salvi. Uno di loro è un italiano con una sua storia. Si chiama Edilio Cipriani, ha settant’anni, e a Port-au-Prince arrivò nel ’98 con due soci per mettere a frutto, dopo disavventure familiari complesse, la sua esperienza precedente coi gelati: la sua vecchia ditta italiana è quella che forniva la miscela, a suo tempo, per fare la panna del più popolare cornetto del mondo. Adesso divide la proprietà della più grande gelateria dietro Place Saint Pierre: il Fior di Latte.

«Ne avevo appena aperta una uguale anche giù in basso, all’inizio di Petionville. Ma quella è rimasta sotto le macerie: questa qui invece non ha un graffio. Una bella fortuna». Non gli era andata sempre così: sua figlia, che lo aveva raggiunto qualche anno fa, si è vista ammazzare un amico di fianco nel 2004 ed è scappata da Haiti il giorno dopo. «Allora – dice Cipriani – erano cose all’ordine del giorno anche quassù. Adesso va molto meglio. Peccato per tutti quei poveretti rimasti sotto il terremoto…». Il grande giardino della piazza è occupato da una folla che solo apparentemente è simile all’umanità dolente di tutta l’altra Port-au-Prince: certo, dai quartieri vicini sono venuti in molti per cercare anche in questo grande spiazzo un posto dove stare, e accendere un fuoco. Ma la connotazione complessiva resta quella di prima: un mercato. La bancarella più grande vende mazzi di fiori. Bellissimi. Diversi li comprano. Anche il grande complesso di La Clos, su un altro fronte della vallata, se l’è cavata un po’ meglio di altri: anche se la serie di ville del parco, come mostra il proprietario Frantz Liautaud, avrà bisogno di qualche ristrutturazione. Ingegnere civile nato a Haiti ma cresciuto tra Europa e Usa, è uno di quelli che pur avendone tutti i mezzi non se ne andrà: «Forse questo disastro, per quanto doloroso, era l’unico modo per dare ad Haiti un futuro. Ora è tabula rasa: c’è una chance di ripartire».

Nel parco, tra i campi da tennis e la piscina, sono accampati altri che abitavano appena più giù, e che la casa l’hanno persa. Come Joseph Slow, giovane economista della Soge Bank: «Per Haiti è finita – dice – almeno per i prossimi anni». Fuori da Port-au-Prince, costeggiando il mare, anche i piccoli villaggi della pianura si succedono al ritmo di uno ogni dieci-quindici chilometri, con le loro puntuali case distrutte: dove esistevano case e non baracche. Fino a Kaliko Beach, il resort extralusso – per gli standard di qui – dove i funzionari dell’Onu e gli stranieri venivano a rilassarsi tra un impegno e l’altro: neanche un graffio neppure quello, anche il Veuve Clicquot è lì al suo posto, per 153 dollari la bottiglia, così come staff e concierge in divisa. «Da martedì scorso però – spiega il manager Joel Thebaud – i clienti sono effettivamente pochi. Se non cambia qualcosa dovremo chiudere».

PAOLO FOSCHINI

 

Haiti: ville, Suv e mercati di fiori È rimasta intatta la città dei ricchiultima modifica: 2010-01-20T16:04:33+01:00da
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