Assolto un medico che aveva parcheggiato in divieto di sosta dopo essere stato chiamato per una visita urgente, «Possono esserci contingenze prioritarie che prevalgano su ogni altra esigenza»
ROMA – Ci sono casi in cui, dopo una contravvenzione, si può mandare il vigile ‘a quel paese’. O addirittura minacciarlo. La legittimazione arriva dalla Cassazione che, però, precisa: il comportamento dell’automobilista può essere perdonato quando la multa sia stata fatta ad una persona che abbia «contingenze prioritarie che prevalgano su ogni altra esigenza». Ecco perchè la Sesta sezione penale – sentenza 1997 – ha annullato una doppia condanna per il reato di minaccia a un medico catanese, Antonio C. che venne multato dalla polizia municipale per auto in divieto di sosta con rimozione forzata. Il medico, chiamato per una visita cardiologica urgente, aveva lasciato la macchina in divieto e, vedendo i vigili elevargli la contravvenzione, si era rivolto loro dicendo: «Fatemi la contravvenzione e io vi farò vedere l’inferno». Una minaccia da condannare sia per il Tribunale che per la Corte d’appello di Catania (maggio 2008). La difesa di Antonio C. ha fatto ricorso con successo in Cassazione sostenendo che in questo caso doveva scattare «l’esimente dell’adempimento del dovere» non escludibile «in ragione dello scarso livello di sensibilità dimostrato verso la difficile opera di controllo del traffico e delle esigenze della collettività».
LE MOTIVAZIONI – Piazza Cavour, contrariamente alle richieste della pubblica accusa, ha accolto il ricorso del medico e ha evidenziato che Antonio C. «reagì all’operato dei vigili con l’atteggiamento di chi ritiene che il proprio compito contingente sia prioritario e prevalga su ogni altra esigenza e, in tale ottica, pretende che chiunque comprenda e condivida tale valutazione». Quando, dunque, i vigili, «deludendo tale aspettativa – dice la Cassazione -, insistettero nel loro atteggiamento, anche per i problemi che la macchina in divieto causava alla circolazione, gli venne naturale reagire con una frase che, al di là del suo obiettivo contenuto minatorio, voleva sostanzialmente esprimere, nella sua stessa enfasi, solo un’esasperata protesta verso quella che gli appariva come un’importuna e ottusa interferenza nell’urgente compito del suo dovere professionale e, non era, quindi, soggettivamente caratterizzata da reale volontà di coartazione». Da qui l’annullamento della sentenza di condanna «perché il fatto non costituisce reato».