Como, Il caso dell’armiere che ha ucciso l’imprenditore. «Aveva offeso la mia famiglia. L’ho decapitato con un seghetto»
La polizia scientifica lascia la pizzeria Conca d’Oro di Senna Comasco dove è stata trovata la testa dell’imprenditore Giacomo Brambilla, ucciso dall’armiere comasco Alberto Arrighi (Ansa) |
COMO – «Signor giudice, quando ho sentito quella frase sulla mia famiglia, non ci ho visto più. E ho sparato…». Quale frase può aver mai fatto perdere completamente il senno ad Alberto Arrighi, l’armiere comasco che ha ucciso Giacomo Brambilla, l’ha decapitato bruciandone la testa in un forno e ne ha abbandonato il corpo in una sperduta località a 150 chilometri da Como?
Questa: «Ho detto al Brambilla che non stava rovinando solo me, ma anche mia moglie e le mie figlie. Lui mi ha risposto: “Bello, di tua moglie e delle tue figlie non me ne frega niente!”. Poi è successo tutto». «Tutto» è contenuto nel verbale di interrogatorio, il primo sostenuto da Arrighi negli uffici della questura di Como, davanti al pm Antonio Nalesso e all’avvocato difensore Ivan Colciago e dal quale è scaturito il fermo dell’uomo. Per due ore l’armiere, incensurato, consulente della procura, amico di tanti poliziotti e carabinieri, racconta con lucidità i dettagli raccapriccianti del delitto. Uno riguarda la decapitazione: «Ho usato un seghetto, ho fatto tutto da solo, mio suocero non c’entra». Arrighi, nella confessione, tenta in tutti i modi di scagionare Emanuele La Rosa, il suocero che assieme a lui è sottoposto a fermo (ma solo per distruzione di cadavere, non per l’omicidio).
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Alberto Arrighi nella sua armeria a Como |
Il magistrato concentra tuttavia la sua attenzione sui rapporti tra Arrighi e la vittima: lì è contenuto il movente del delitto, i cui contorni sono ancora da definire. Così li ha raccontati il fermato: «Conoscevo il Brambilla perché in passato era stato mio cliente. Verso settembre si è ripresentato da me e pareva che fosse al corrente delle difficoltà economiche che sto attraversando. “Non capisco come un negozio come questo, nel centro di Como, non riesca a sfondare” e si è proposto di aiutarmi nella gestione». Il primo aiuto consiste in un prestito di 70-80 mila euro. Da lì in avanti la presenza del creditore nella vita di Arrighi si fa via via più costante. «Era un incubo. Mi telefonava anche 10-15 volte al giorno, mi impartiva ordini, voleva spadroneggiare». E si giunge alla stretta finale: Brambilla propone all’interlocutore di diventare socio nel negozio con una quota del 99 per cento. Alla famiglia, proprietaria dell’esercizio dal 1938, restano solo le briciole.
È di questo che si parla nell’appuntamento fatale di lunedì. «La lite si è accesa, ho visto il Brambilla che metteva mano alla cintola, temevo mi stesse sparando. Poi ha pronunciato quella frase sulla mia famiglia. Si è girato e ha fatto due passi verso il retro. Ho preso una calibro 22 dal tavolo e gli ho sparato due colpi alla nuca». La sequenza è ripresa anche dalle telecamere del negozio. In seguito Arrighi compie una serie di atti senza logica e senza speranza: «Ho lasciato il cadavere in negozio e sono partito sul Cayenne del Brambilla. Arrivato a Nova Milanese l’ho abbandonato a un distributore della Shell e ho buttato via le chiavi. Sono tornato a Como in taxi e sono andato al poligono a sparare».
E poi lo scempio sul cadavere: «La decisione di bruciare la testa nel forno della pizzeria? Volevo rendere il corpo irriconoscibile». Polizia e procura ora metteranno al vaglio questa confessione con alcuni elementi oggettivi di cui nel verbale non ci sarebbe traccia. Ad esempio: Arrighi parla di due colpi. Dall’esame del cadavere gli spari risultano invece tre, uno dei quali esploso dall’armiere con una calibro 40 che il Brambilla aveva con sé al momento del delitto. C’è poi il mistero di 100 mila euro in contati sequestrati nella pizzeria del suocero: non sono di Arrighi né di La Rosa, forse appartenevano alla vittima.
Claudio Del Frate