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Don Evaldo e Anemone: «Sì, gli ho dato i soldi. Erano suoi, li custodivo io»

 

Protezione civile L’inchiesta. Il religioso dalla Tanzania:«Faceva dei lavori per noi, Gliene dobbiamo molti altri» «Conoscevo anche il nonno»

 

Don evaldo nella sua missione in Tanzania

La voce arriva squillante, anche se il tono appare leggermente affaticato. Don Evaldo Biasini, 83 anni, è in un villaggio della Tanzania, lì dove la Congregazione del preziosissimo sangue gestisce un ospedale. Lontano migliaia di chilometri dall’inchiesta sugli appalti per i Grandi Eventi, dalla «cricca» dei funzionari accusati di corruzione e soprattutto da Diego Anemone, l’imprenditore titolare del Gruppo che porta il nome della sua famiglia e del Salaria Sport Village, che gli avrebbe affidato il suo tesoretto. E quando capisce che proprio di questo si vuole parlare, non si tira indietro. «Adesso basta con questa storia del tesoro. È vero, glieli ho dati i soldi a Diego, ma erano suoi. E poi è successo soltanto quella volta della telefonata che hanno registrato».

L’AMMISSIONE – Parla per la prima volta Don Evaldo e così conferma il sospetto degli inquirenti. Perché ammette che la consegna effettivamente avvenne, pur affermando di non sapere a che cosa servisse quel denaro. Un paio di settimane fa i carabinieri del Ros sono stati nella sede del suo istituto religioso e dentro una cassaforte hanno trovato assegni circolari per centinaia di migliaia di euro, un po’ di contanti e le tracce di alcuni versamenti bancari effettuati nei giorni precedenti la perquisizione. Soldi, è la tesi dell’accusa, che l’economo della Congregazione custodiva per conto di Anemone, come del resto dimostrerebbe quella telefonata intercettata il 21 settembre 2008, poco prima che quest’ultimo incontri il capo della Protezione civile Guido Bertolaso. «Senti don Eva’, scusa se ti scoccio… stamattina devo vedere una persona verso le 10.30-11.00, tu come stai messo?». Don Evaldo si mostra disponibile: «Di soldi? Qui ad Albano ce n’ho 10 soltanto. Giù a Roma potrei darteli… Debbo poi portarli in Africa mercoledì… vediamo un po’». I giudici hanno sempre ritenuto che in realtà la richiesta fosse per 50.000 euro. E Don Evaldo ora conferma anche questo, pur tentando di sminuire il proprio ruolo. «Io non c’ho nessuna cassaforte, niente di segreto. Sono venuti i carabinieri e ho consegnato alcuni assegni circolari». Titoli che le aveva dato Anemone? «Sono intestati a una signora che non c’entra niente con questa storia». I carabinieri stanno facendo accertamenti, dicono che sono soldi dell’imprenditore.

FACEVA LAVORI PER NOI – «Io lo voglio dire chiaro: non sono intestati né a Don Evaldo, né alla Congregazione. Faranno le indagini e scopriranno la verità. E vedranno che io a Diego gli davo i soldi perché lui faceva lavori per noi. Quindi sono suoi e poteva usarli come voleva, io non dovevo certamente chiedere spiegazioni». Come mai eravate così in confidenza? «Lo conosco da tanti anni. Era il 1984 quando suo nonno ha cominciato a occuparsi delle ristrutturazioni e dopo è stato suo padre. Alla fine è arrivato lui». Ma perché lei gli teneva i soldi? «Mi aveva detto: “Don Evaldo non mi pagare, quando ho bisogno mi fai degli anticipi. Per questo gli ho dato quei 50.000 euro e gliene devo dare anche altri. C’abbiamo almeno 100.000 euro da versargli. Lui preferiva così». Il sospetto dei magistrati di Firenze e di Perugia che indagano sulla spartizione degli appalti e hanno arrestato Anemone per corruzione, è stato esplicitato negli atti giudiziari. Il sacerdote sarebbe stato usato dall’imprenditore romano come una sorta di bancomat. Quando aveva bisogno di contanti li chiedeva a lui, consapevole che in questo modo sarebbe sfuggito ad ogni controllo fiscale e soprattutto che sarebbe stato davvero difficile ricondurre a lui le somme prelevate e poi elargite ad altri. Talvolta lo avrebbe utilizzato anche per custodire e poi cambiare gli assegni. Sono state le intercettazioni a far scoprire l’inghippo e adesso Don Evaldo non nega le consegne, anche se ribadisce di non sapere come Anemone utilizzasse il denaro. «Io — ripete al telefono — so soltanto che Diego aveva ristrutturato un’intera palazzina della Congregazione che si trova ad Anagni e ancora deve prendere tutti i soldi. Questo è tutto, adesso devo tornare a occuparmi dell’ospedale, non posso perdere tempo con queste storie».

IN TANZANIA – È a Itigi, Don Evaldo, un piccolo villaggio sperduto dove la sua Congregazione aiuta la popolazione locale. «Ora la mia urgenza è trovare l’acqua. Qui la siccità ha seccato tutto, abbiamo 500 persone da assistere, 240 bambini. Devo rintracciare i pozzi artesiani, capire come facciamo ad andare avanti». Per avere notizie sulla missione ci si può affidare a internet. Sui siti web ci sono decine di foto che ritraggono il sacerdote tra la popolazione locale, insieme ai bambini, alle donne, ai medici volontari. E poi ci sono le testimonianze di alcuni ragazzi che per alcuni mesi ogni anno sono stati in quel villaggio sperduto per dare una mano ai preti e alle suore che assistono chi ha bisogno di cure, ma anche di cibo e medicinali, i bimbi che vogliono studiare. Don Evaldo lo fa da anni e quando le sue telefonate con Anemone sono diventate pubbliche gli altri religiosi e i dipendenti della Congregazione hanno cercato in ogni modo di proteggerlo, di sottrarlo alla curiosità. E lo hanno difeso affermando che mai, lui che ha sempre gestito i fondi, avrebbe commesso illeciti. Gli accertamenti su contanti e assegni sono in corso, si attende che le banche ricostruiscano il percorso degli assegni, la provenienza degli ultimi versamenti. Il missionario ostenta tranquillità. Al telefono, quando soddisfaceva le sue richieste, Anemone gli diceva: «Sei un angelo». Lui su questo non vuole aggiungere altro, rifiuta anche di inviare un messaggio all’imprenditore. «Quando torno in Italia — dice prima di riattaccare il telefono — vediamo se sarà possibile dirgli qualcosa».

Fiorenza Sarzanini

Don Evaldo e Anemone: «Sì, gli ho dato i soldi. Erano suoi, li custodivo io»ultima modifica: 2010-03-07T17:16:16+01:00da
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