Inutili i tentativi di soccorrerlo. L’arrivo del maltempo costringe la squadra a fuggire. Lo scozzese Peter Kinloch si accascia 200 metri dopo avere iniziato la discesa. I compagni costretti a lasciarlo
Peter Kinloch in una foto tratta dal suo profilo Facebook |
Lo hanno lasciato a morire in cima a quel monte Everest che aveva conquistato solo poche ore prima, pazzo di felicità per aver raggiunto la sua quinta vetta ed essere così ad un passo dal completare la «Seven Summit Challenge». Il 28 enne Peter Kinloch aveva iniziato la discesa da neanche 200 metri, quando all’improvviso ha cominciato ad inciampare e a lamentarsi, dicendo che non riusciva a vedere bene. Immediatamente soccorso dagli altri partecipanti alla spedizione himalayana e da tre sherpa arrivati dal campo-base dopo la richiesta di aiuto e che per quasi 12 ore gli hanno somministrato ossigeno e steroidi per cercare di evitargli il congelamento, lo sfortunato ragazzo non è, però, riuscito più a riprendersi e, alla fine, quando ormai erano le 2 del mattino, i compagni si sono rassegnati ad abbandonarlo al suo destino, lasciandolo in un posto chiamato «Mushroom Rock» a 8.595 metri di altezza, anche perché le condizioni meteo erano rapidamente peggiorate e i superstiti rischiavano di rimanere intrappolati a loro volta in cima alla montagna.
Peter sulla vetta del Monte Bianco durante una precedente spedizione (da Facebook) |
EMORRAGIA CEREBRALE – Stando a quanto riporta il Daily Mail, pare che l’improvvisa perdita della vista lamentata da Kinloch (un informatico che lavorava per la polizia, descritto in ottime condizioni di salute e non certo il tipo da correre rischi) possa essere stata causata da un’emorragia cerebrale. «Arrivare in cima alla montagna è stato faticoso – ha detto al tabloid un membro della spedizione che ha chiesto l’anonimato –, ma Peter sembrava stare bene ed era di ottimo umore, tanto che poco prima di raggiungere la vetta ci aveva confidato che conquistare l’Everest era per lui la realizzazione di un sogno lungo 25 anni. Poi però, all’improvviso, quando abbiamo cominciato la discesa, sembrava che perdesse la coordinazione e continuava ad inciampare, sebbene intervallasse queste scivolate con la normale camminata. Pochi minuti dopo, però, Peter ha detto a David O’Brien (il capo della spedizione, ndr), che non ci vedeva più. Per la verità, il ragazzo non sembrava sorpreso da quello che gli stava capitando, anzi era assolutamente calmo e ha raccontato che gli era già successo prima, sebbene mai in montagna».
SOCCORSI SENZA SUCCESSO – A quel punto, i tre sherpa e O’Brien hanno cercato di farlo scendere ad un’altitudine meno pericolosa per il corpo umano, ma dopo quattro ore avevano percorso appena 60 metri. «Peter cominciava a dare segni di congelamento a due dita – ha proseguito il testimone – anche se restava lucido e non sembrava soffrire per l’altitudine. Quelli della squadra di soccorso hanno fatto davvero tutto quanto in loro potere per salvarlo, arrivando loro stessi ad un passo dal dover chiedere aiuto». Ora il corpo di Kinloch (con addosso il berretto e la sciarpa della sua adorata Inverness Caledonian Thistle”, squadra di calcio della Prima Divisione Scozzese) riposerà su quella stessa montagna che già è diventata la tomba di molti scalatori nel corso degli anni.
IL RECUPERO DELLA SALMA – Ancora non si sa se le autorità tibetane appronteranno un piano per recuperare la salma, anche perché ogni tentativo in tal senso potrebbe rivelarsi assai pericoloso. E mentre la sua fidanzata turca, Gul Cosguner, ha lanciato un accorato appello al Times affinchè Peter «possa tornare a casa», per il padre di Kinloch «il solo conforto che ci rimane è sapere che mio figlio ha realizzato una delle sue aspirazioni». Anche se per farlo ci ha rimesso la vita.
Simona Marchetti