«Mio figlio Oleg, l’assassino per i medici non era un violento», «In casa mazze e coltelli. Stava con la donna sbagliata. Gli psichiatri mi avevano detto che non era matto»
La polizia mostra la foto di Oleg, il pugile assassino |
MILANO – Gli occhi piccoli si fermano a fissare il vuoto. Davanti agli agenti, alla portinaia del suo palazzo, di fronte a ogni domanda sui misteri del suo Oleg. Il pugile assassino.
Larisa, 49 anni, ha il fisico minuto avvolto in una tuta di maglina e i capelli corti di un castano chiarissimo. Le sue mani piccole, che stringono i manici di un borsone riempito in fretta e furia con i vestiti per suo figlio detenuto, ancora tremano quando oltrepassa il portone di casa. Sono le nove e mezza, suo figlio è in carcere da 13 ore: «Mi hanno detto che devo portare i vestiti, credo sia a San Vittore». Lo sguardo vola verso l’angolo tra viale Gran Sasso e il grande e trafficato viale Abruzzi, dove Oleg Fedchenko, venerdì mattina, ha colpito come fosse un sacco da palestra una 41enne filippina scelta a caso tra la folla. «Ha visto cos’ha fatto? Indietro non si può tornare», parole che restano sospese mentre solleva quel borsone dentro al taxi che l’aspetta pochi metri più in là.
Per la polizia, per il magistrato, Oleg il puglie ha colpito in preda alla follia. Pazzia fatta di botte e frasi sconnesse, di odio e bestemmie. Larisa è in Italia da 10 anni, da 8 mesi convive con un pilota d’aereo di origini americane, «che però è sempre all’estero». Fa la cameriera nel ristorante di un albergo a due passi dalla stazione Centrale di Milano. Con i soldi ha sempre mantenuto il figlio, gli pagava la palestra, le poche uscite la sera.
Nelle sue parole, con quell’accento duro ricordo delle sue origini ucraine, ci sono i ricordi, le passioni, i dubbi di una madre che ha scoperto l’inimmaginabile: «Non era matto. Nessuno mi ha mai detto che poteva essere violento. I medici lo hanno visitato, gli hanno dato delle pastiglie. Oleg non le prendeva, ma s’era ripreso».
Però c’è quella telefonata alla polizia, venerdì mattina pochi secondi prima del massacro: «Venite, mio figlio è impazzito, può fare del male a qualcuno». Larisa sospira, chiude gli occhi: «Da due giorni non mangiava, non dormiva. Era strano. Quando è uscito in strada era una furia. È grande e grosso, poteva far male a qualcuno. A me? Mai, neppure uno schiaffo». Alla polizia ha sventolato un certificato medico, l’abilitazione al pugilato agonistico, rilasciato da un medico sportivo autorizzato dall’Asl di Milano solo il 26 giugno scorso: «Come poteva non essere sano? Oleg è un salutista, tiene al suo fisico, non beve, non fuma, non si droga. Vuole fare il pugile». In un vecchio referto medico, il figlio ha invece raccontato di aver assunto, abusato, di steroidi e stupefacenti: cannabis e popper, la droga sintetica inalata da piccole boccette di vetro. Ai medici che lo hanno visitato dopo l’arresto ha detto che aveva smesso di drogarsi ma che in palestra «usava punture di anabolizzanti». Le parole di mamma Larisa si fermano, le risposte si fanno meno decise, come se d’improvviso quel ragazzo in una cella d’isolamento con un braccio ingessato e le mani coperte di bende non fosse più figlio suo: «Non so, cosa posso sapere? Ma no, no, non era violento». In casa aveva anche un grosso coltello con la lama di 32 centimetri, insieme ad un altro a farfalla: «Non ho mai visto quell’arma, con il coltello più piccolo a volte lo vedevo giocare, faceva le mosse, come si fa con le arti marziali. Era un appassionato». E ancora, Oleg il pugile aveva una mazza da baseball nel porta ombrelli di casa: «No, quello era un regalo degli amici, analizzatela, non è mai stata usata. Mai».
Il suo corpo esile si stringe quando si parla di Emlou, la vittima del massacro: «Aveva figli? Oddio…». Le braccia si aprono e iniziano a gesticolare quando invece si parla di Annete, la bella fidanzata lettone di sette anni più grande di Oleg: «Stavano assieme da un anno. Non mi è mai piaciuta. Era più grande, non era per lui». Suo figlio ha detto che lei voleva farle lasciare Annete? «Parliamoci chiaro, avrei preferito che si lasciassero – racconta la madre -. Quella ragazza aveva qualcosa di strano. A volte litigavano, lui si agitava, e avevo paura che tornassero i problemi di tre anni prima. Ci voleva tranquillità con Oleg».
Lei, la bionda hostess arrivata da Riga, dopo il delitto s’è presentata a casa di Oleg: «Dov’è? Dovevamo andare a vedere i delfini». Poi venerdì sera, dopo essere stata ascoltata dagli inquirenti, è tornata in Questura: «Sto cercando la mamma di Oleg, a casa non c’è. Le devo parlare». Mamma Larisa era nel suo bilocale, ma non ha mai aperto. Annete ha lasciato anche il numero di cellulare alla portinaia: «Abbiamo parlato – ha raccontato la madre -, vuole sapere come sta Oleg. Lui le vuole bene».
Cesare Giuzzi