Il Cavaliere. «Ora basta con il disfattismo, l’opposizione lo capisca Non abbiamo alcuna intenzione di andare alle elezioni». Le richieste a Roma. Le condizioni di Bruxelles per gli aiuti: il capitolo sull’Italia nel documento che crea il Salva-Stati
ROMA – La sfida è da dentro o fuori, ci si salva tutti o non si salva nessuno, basta con il «disfattismo», il Paese può farcela e l’unico in grado di tirarlo fuori dalle secche, mantenendo gli impegni presi con l’Europa, è lui, e lui solo.
È un Silvio Berlusconi motivato e conscio dell’importanza del momento quello che, dalla Sardegna dove passa il weekend, assicura che la legislatura durerà «fino al 2013», annuncia che presenterà alle Camere – il 9 e 10 novembre – gli «impegni con l’Europa e le misure per la crescita» che rappresentano un programma per «i prossimi diciotto mesi», sprona l’opposizione al «senso di responsabilità» e promette che tutto quello che è stato richiesto dall’Europa sarà fatto.
Deve essere fatto perché, spiega il premier, non ci sono spazi per giochi o tattiche: «Il Parlamento deve rendersi conto che quello che abbiamo presentato al Consiglio europeo è un programma vincolante. L’Italia continuerà a essere sostenuta dalla Bce solo se saremo in grado di approvarlo, trasformando le parole in fatti. Altrimenti, non ci saranno più aiuti per questo Paese».
Per questo si sta mettendo a punto un’agenda di provvedimenti che dovranno essere varati «in tempi certi, come impegni strutturali». E il governo è pronto a «porre la fiducia su ciascuno di questi» se servirà, perché quello che è in gioco non è «il mio bene, ma l’interesse del Paese». «L’opposizione – si lamenta il premier – continua con la litania del mio passo indietro, senza rendersi conto che questo è il momento di pensare all’Italia. Solo io e il mio governo possiamo realizzare questo programma di riforme per 18 mesi, ecco perché non esiste alcuna possibilità che io mi faccia da parte». La legislatura dunque – è convinto Berlusconi – arriverà alla sua scadenza naturale, il voto anticipato come ipotesi «non esiste più».
Un messaggio lanciato anche agli scontenti del partito, che agitano una maggioranza esposta ai verdetti dei mercati e appesa a una manciata di voti. Ma il Cavaliere mostra ottimismo: chi ha finora espresso malessere lo ha fatto nel timore di un ritorno alle urne senza garanzie di ricandidatura: «Oggi però non c’è più motivo di temere nulla, è così chiaro che non abbiamo nessuna intenzione di andare a votare. Dunque, sono convinto che i malumori rientreranno» e magari che torneranno all’ovile anche deputati che si sono appena allontanati dalla maggioranza, a partire da Gava: «Non c’è nessun patto con la Lega per il voto in primavera, e non c’è nemmeno l’interesse dell’opposizione di andare a votare». Perché, è convinto Berlusconi, «Bersani è il primo a non volere le elezioni, impelagato com’è con la lotta sulle primarie che lo vede coinvolto in una difficile sfida interna, soprattutto con Renzi». Mentre Casini, a giudizio del Cavaliere, avrebbe mille motivi per collaborare con il governo in questo passaggio cruciale e decisivo visto che «abbiamo programmi molto simili», ma subirebbe l’attrazione del centrosinistra anche per ragioni di assetti futuri, visto che il prossimo Parlamento voterà il successore di Giorgio Napolitano al Quirinale…
E dunque, è il momento di passare ai fatti. In fretta, senza perdere tempo prezioso. Per questo, il premier sta lavorando a un’agenda precisa di provvedimenti da approvare da qui all’estate. Con tanto di date di attuazione.
Entro il 15 novembre sarà varata la revisione dell’utilizzo dei fondi strutturali e per le Regioni; entro il 30 del prossimo mese partiranno i mutui agevolati per i giovani; entro il 31 dicembre toccherà alle misure per l’occupazione giovanile e femminile. A fine gennaio dovrà essere completato il piano che prevede la «tutela della concorrenza» per servizi pubblici locali» con introduzione di un «sistema di garanzia» per la qualità dei servizi nel comparto idrico e del trasporto pubblico. La delega assistenziale e previdenziale dovrà essere varata entro febbraio, mentre per fine marzo dovrà essere pronto il piano di liberalizzazioni e concorrenza anche dei servizi commerciali e dei loro orari.
Si arriva a fine aprile per l’approvazione (almeno in prima lettura) della riforma costituzionale dello Stato, mentre entro fine maggio toccherà al capitolo più spinoso, quello delle «norme più stringenti sul lavoro subordinato e parasubordinato» (i «licenziamenti facili», espressione respinta dal premier) e per fine giugno sarà la volta della riforma costituzionale sul pareggio di bilancio.
Su tutti questi provvedimenti, in parte già scadenzati nella lettera al Consiglio europeo, Berlusconi è pronto a «mettere la fiducia», se necessario. Perché appunto non c’è alternativa alla loro approvazione, pena una drammatica penalizzazione del Paese, già in difficoltà – secondo Berlusconi – a causa di motivi contingenti e indipendenti dalla sua volontà.
Come il rapporto con la Francia di Sarkozy. In Europa «tutti mi hanno fatto i complimenti per la lettera di impegni che ho assicurato saremo in grado di onorare», ma resta il nodo del pessimo rapporto con la Francia. Con lui, dice il premier, c’era un’amicizia solida, che però si è guastata per il caso di Bini Smaghi, per la sua indisponibilità a dare le dimissioni dalla Bce dopo la nomina di Mario Draghi e questo nonostante gli fossero stati offerti ben tre incarichi: la presidenza dell’Autorità per la Concorrenza, quella dell’Autorità per i Lavori pubblici e perfino un posto di ministro. Tutti rifiutati.
Difficili restano anche i rapporti con Giulio Tremonti, che nel Pdl appare sempre più isolato, che con il premier continua a convivere in un clima di gelo e diffidenza. Clima che, dicono a Palazzo Chigi, per lui si è fatto difficile anche nel rapporto con la Lega, solo Bossi gli resta «amico», ma anche con lui il legame non sarebbe più quello di un tempo.
Invece, assicura il premier, è tra lui e il Senatur che resta solido l’asse. Anche perché «faremo il federalismo», come verranno varate le riforme della giustizia civile e penale. «Con l’Europa c’è l’accordo per ridurre del 20% il contenzioso civile», e per quanto riguarda il penale «è uno scandalo» che va risolto. La prova? Qui il premier torna a parlare di sé, dei suoi guai personali: «Gli italiani devono sapere che da qui a febbraio mi hanno già fissato 37 udienze. Trentasette dico, ma come potrei partecipare e assieme a fare il presidente del Consiglio? Ovvio che non potrò andare a tutte, e dunque dovrò rinunciare a qualche mio diritto di difesa».
E dire che, si lamenta il premier come fa con chiunque gli parla, non c’è nemmeno materia per giustificare alcuni dei processi a suo carico: «Io – ripete – Ruby l’ho solo aiutata ad aprire un’attività economica, un centro estetico, nient’altro. Ho sempre creduto che fosse maggiorenne, ero convinto che avesse diciannove anni. Ed è assolutamente vero – giura – che la credevo parente di Mubarak, tanto è vero che ho parlato di lei per quindici minuti con l’ex presidente egiziano!».
Non si è esaurito con la lettera a José
Manuel Barroso e a Herman Van Rompuy, i vertici istituzionali di Bruxelles, il percorso pieno di curve dell’Italia negli ultimi giorni. Esistono altre condizioni di fronte alle quali il governo attuale e quelli a venire saranno giudicati, mentre l’Europa crea un fondo salvataggi soprattutto per puntellare il debito di Roma. Non è niente di segreto. Non si tratta di un documento confidenziale anche se né il premier Silvio Berlusconi, né l’opposizione, né i sindacati, né Confindustria fin qui ne hanno parlato (per dirne bene o male che sia, o solo per annunciare che esiste). Semplicemente, sono le conclusioni ufficiali del Consiglio europeo: sottoscritte da ciascuno dei 27 capi di Stato e di governo, la più alta istanza politica nel continente, il presidente del Consiglio incluso.
Quel documento uscito alle 4 del mattino di giovedì, al punto 6, indica per l’Italia impegni che vanno aldilà sia della lettera che Berlusconi aveva spedito a Barroso e Van Rompuy poche ore prima, sia della stessa lettera inviata a inizio agosto della Banca centrale europea all’Italia.
Lo fanno in alcuni punti specifici: il ritmo di riduzione del debito pubblico, la liberalizzazione degli ordini professionali e l’accesso al mestiere dei giovani, la revisione del sistema di sussidi di disoccupazione. Soprattutto, in una sola frase con la firma in calce di Berlusconi e degli altri 26 leader, quel testo crea una cornice stringente di monitoraggio e «pressione dei pari» su quanto l’Italia farà di qui al 2014: dunque dopo le prossime elezioni. Da ora in poi l’Italia, qualunque sia la sua classe dirigente, dovrà muoversi entro quei paletti. L’alternativa – implicita ma evidente – è la rinuncia alla rete di sostegno europea senza la quale oggi il Paese rischia di non potersi finanziare.
Il punto centrale delle conclusioni del Consiglio europeo riguarda il debito pubblico. Il vertice di Bruxelles prende nota con favore delle misure italiane per il pareggio di bilancio nel 2013 e per un surplus nel 2014. Poi però cita un obiettivo numerico che nella lettera della Bce di agosto, quella firmata da Jean-Claude Trichet e Mario Draghi, non compariva: «Generare una riduzione del debito pubblico lordo al 113% del Pil nel 2014».
Sul piano tecnico non c’è novità: un obiettivo simile compare nell’aggiornamento al documento di Economia e finanza del Tesoro del 22 settembre. Il problema però è che il Consiglio europeo non è un’istanza tecnica. È politica ed è lì che c’è una svolta, perché ora l’obiettivo di un debito al 113% nel 2014 non è più (solo) un programma del governo italiano ma una richiesta della più alta istanza istituzionale in Europa. Poiché il debito italiano a fine anno sarà sopra il 120% del Pil (stima del governo), ciò significa che Angela Merkel, Nicolas Sarkozy e i loro altri 24 colleghi chiedono che l’Italia riduca il rapporto fra debito del 2,3% del Pil ogni anno fino al 2014. Sono circa 35 miliardi di euro l’anno, una volta presa in conto la (scarsa) crescita del futuro prevedibile. Nei prossimi tre anni si tratta di una riduzione del debito in tutto di circa cento miliardi di euro.
È soprattutto su questo parametro che i leader europei giudicheranno da ora se l’Italia merita il sostegno finanziario che oggi le serve: è il meccanismo di aiuto condizionato innescato dall’ultimo vertice. Da giovedì mattina alle 4 l’Italia è appesa a un nuovo metro di giudizio, e non è detto che sia già sulla strada giusta per centrarlo, visto che la crescita appare già deludente rispetto alle ultime stime: dunque il debito in rapporto al Pil rischia di essere più alto.
A conferma dell’attenzione con cui viene seguita, all’Italia il Consiglio europeo riserva anche altri «consigli» che non figurano in questo livello di dettaglio né nella lettera della Bce, né in quella di Berlusconi a Barroso e Van Rompuy. Il vertice parla così di «abolire le tariffe minime nei servizi professionali», come se prendesse nota dell’impegno che il premier ha appena preso con la sua missiva. Non è così però, perché la lettera del governo annuncia solo genericamente «altre misure per rafforzare l’apertura degli ordini professionali». Anzi la reintroduzione delle tariffe minime, nota barriera all’ingresso dei più giovani, era stata un segno distintivo della riforma perseguita da Angelino Alfano quando era Guardasigilli. E anche qui, nemmeno la Bce era entrata in questi dettagli su cosa deve fare l’Italia per riportare l’economia in grado di crescere.
Sulla stessa linea, il Consiglio europeo indica anche di «rivedere entro la fine del 2011 il sistema degli assegni di disoccupazione attualmente frammentato». Non è una richiesta anodina. Non lo è perché nella sua lettera di poche ore prima il governo non anticipa nulla del genere e soprattutto non lo fa entro queste scadenze pressanti: il documento di Berlusconi parla piuttosto di riforma del mercato del lavoro «entro maggio 2012». Senza fare riferimento alle incongruenze della cassa integrazione che non copre la gran parte dei lavoratori più giovani, perché precari.
C’è poi la vigilanza, maggiore di quella alla quale Bruxelles ha abituato l’Italia dall’avvio del progetto dell’euro. «Invitiamo la Commissione europea – scrivono i leader – a fornire una valutazione dettagliata delle misure e a monitorare la loro applicazione e invitiamo le autorità italiane a fornire in modo puntuale tutta l’informazione necessaria per questa valutazione». Sono le parole che fanno da pendant alla promessa di sostegno finanziario, e non è una promessa da niente: al ritmo tenuto da inizio agosto, la Bce per esempio dovrebbe comprare Btp per 280 miliardi di euro l’anno solo per mantenere questi livelli di acquisti, che pure hanno prodotto tassi elevati. Ora anche il Fondo salvataggi potrà assistere l’Eurotower. Ma non se l’Italia non farà ciò che i leader europei le chiedono.
Federico Fubini
Paola Di Caro