Nella crisi russo-ucraina del 2006 il conto fu di 400 milioni di euro. L’Italia e la dipendenza storica: importata il 90% dell’energia. Petrolio e gas coprono quasi l’80% del fabbisogno. I “no” delle Regioni a gasdotti e rigassificatori ci condannano alla dipendenza.
Per un Paese come l’Italia, che per la sua energia dipende al 90% dall’estero e che copre il 40% dei suoi bisogni civili e industriali con il gas naturale (un altro 40% è petrolio, cosa che di certo non rassicura), una prescrizione come questa diventa fondamentale. Un’occhiata alla mappa dei gasdotti e alle rotte marittime interessate permette di comprendere la situazione più di mille parole. Le arterie principali che nutrono la fame di energia dell’ottava economia del mondo arrivano da Algeria e Russia. L’interruzione totale di una sola delle due metterebbe in ginocchio il sistema di approvvigionamento. Su base giornaliera, se ci riferiamo allo scorso 2 febbraio, verrebbero a mancare 80-90 milioni di metri cubi su 420. Finora non ci si è mai arrivati, ma negli anni scorsi ci si è andati vicini. Ad esempio nell’inverno 2005-06 e nel 2008 con le «guerre del gas» Russia-Ucraina. Mentre pochi ricordano che nel dicembre 2008 l’ancora di una nave strappò una delle 5 condotte del tubo dall’Algeria nello stretto di Messina, bloccando per settimane il flusso di gas.
Ma andiamo avanti: subito dopo i due gasdotti principali arrivano quello dal Nord Europa e il libico Greenstream, pari rispettivamente a 35-40 e 16-18 milioni di metri cubi al giorno. Quello libico, è storia recente, ha ricominciato a trasportare metano solo da pochi mesi, e a prezzo di enormi sforzi degli uomini dell’Eni. Ma è rimasto fermo per mesi dopo la rivoluzione anti-Gheddafi della primavera 2011. E l’inverno precedente, tanto per rimettere in fila tutti gli eventi «sfortunati», una frana nel Canton Berna aveva bloccato per mesi il tubo proveniente dal Nord Europa.
Tutti fatti imprevedibili, è vero. Per di più – in un momento di bassi consumi generalizzati come negli ultimi anni – accolti persino con favore da clienti che hanno potuto invocare una «causa di forza maggiore» per non pagare forniture altrimenti inutilizzabili. Ma la casistica delle disavventure, mai avvenute in contemporanea tanto da indurre a qualche scongiuro, serve a mettere in evidenza la fragilità di un sistema che probabilmente non si è mai diversificato abbastanza. E che con questa sua rigidità di fondo ha anche mancato di cogliere delle «occasioni» favorevoli: con qualche rigassificatore in più (un investimento che forse i consumatori accetterebbero di sostenere in bolletta) si sarebbe potuto pagare il gas ai prezzi più favorevoli del mercato «spot», risparmiando fino al 20%.
Ora invece, oltre che sulla buona sorte, bisognerà fare conto soprattutto sulle riserve immagazzinate negli «stoccaggi» (i vecchi giacimenti esauriti da tempo che si trovano soprattutto nella Pianura Padana) e nelle contromisure d’emergenza prese dal Comitato per la Sicurezza. Gli stoccaggi, però, funzionano con il «principio del palloncino». Quando sono pieni e in pressione, all’inizio dell’inverno, possono arrivare a fornire fino a 260-270 milioni di metri cubi al giorno, ma alla fine della stagione, quando sono un po’ più «spompati», si scende a 150 milioni. Nel 2006, l’anno difficile della crisi ucraina, erano pari a 12,9 miliardi di metri cubi. Ora, dopo 6 anni, siamo saliti a 14,7 miliardi, compresi 5,1 miliardi di «riserve strategiche», quelle che la leader di Confindustria Emma Marcegaglia vorrebbe utilizzare subito. Un incremento non proprio spettacolare, verrebbe da dire, nella speranza che non ci sia da pentirsene. Sempre nel 2006 si applicarono le medesime contromosse decise ieri, e il distacco degli «interrompibili» durò quasi un mese, dal 23 gennaio al 22 febbraio. Fu autorizzata l’entrata in funzione delle più inquinanti centrali a olio combustibile per risparmiare il prezioso gas. Un terzo delle riserve strategiche fu intaccato.
Nulla, tuttavia, è a costo zero. Allora, per le tasche degli italiani, l’emergenza si tradusse in una ulteriore tassa di 400 milioni di euro. L’Autorità presieduta da Alessandro Ortis dovette riconoscere 66 milioni di euro all’Enel come reintegrazione per i maggiori oneri sostenuti con l’uso delle centrali a olio. Ci fu il tempo persino per qualche battuta salace in vista delle elezioni: «Il gas non è mancato grazie alla mia amicizia con Putin», disse Berlusconi. «Mi chiedo di quale gas Berlusconi abbia parlato con Putin», rispose il Ds Massimo D’Alema.
COLPE – «Il rigassificatore di Brindisi? Un crimine». Parola del governatore pugliese Nichi Vendola. «Il no al rigassificatore non è una scelta nimby (acronimo british per «non nel mio giardino») ma di sviluppo», gli fa eco il sindaco del comune triestino di Muggia, Nerio Nesladek.
Il terminal di rigassificazione off-shore di Porto Recanati, invece, difficilmente riuscirà a vedere la luce perché il presidente della Regione Spacca e i Comuni di Ancona e Macerata hanno detto «niet».
E così, con le temperature sottozero e i consumi di gas che si impennano l’Italia si ritrova con due soli rigassificatori in funzione – quello spezzino di Panigaglia da 4 miliardi di metri cubi e quello di Rovigo da 8 miliardi di metri cubi – e con la necessità di riavviare le inquinantissime centrali a olio combustibile. Perché su circa 12 progetti di infrastrutture di rigassificazione, solo due sono state realizzate. Mentre le altre sono bloccate. Se il nostro Paese soffre la carenza di approvvigionamento, si possono ringraziare i vari Vendola, Spacca e Nesladek. Infatti, l’88% del gas utilizzato in Italia arriva attraverso il tubo dei gasdotti e non via nave. Il che si traduce con una dipendenza per oltre i due terzi del fabbisogno nazionale da Alegeria (37%) e Russia (30%). E se l’Eni non avesse riavviato la produzione libica (12,5%), come ha detto l’ad Paolo Scaroni, la situazione sarebbe ancor più drammatica.
«Il maggiore responsabile – commenta Stefano Saglia, deputato Pdl e già viceministro dello Sviluppo – è il governo Amato del 2001 che ha approvato una riforma della Costituzione nella quale un settore strategico come l’energia è materia concorrente fra Stato e Regioni, una mostruosità».
Gli stessi toni utilizzati dal presidente dell’Authority per l’Energia, Guido Bortoni, nella sua ultima relazione annuale. «Senza infrastrutture l’Italia sarà condannata a diventare una “provincia“ del gas e non un Paese-snodo che assume un ruolo cruciale», aveva detto. Una sollecitazione che rischia di restare lettera morta se ci si pone una semplice domanda: come potrà giungere in Italia il nuovo gasdotto South Stream il cui sbocco è previsto a Otranto, se la Puglia da dieci anni blocca con vari pretesti un rigassificatore? «Anche la sinistra si riempie la bocca con parole come “liberalizzazioni“, ma queste si ottengono se si ha un’abbondanza di infrastrutture; se queste ultime coincidono con la domanda non c’è concorrenza», aggiunge Saglia. Senza contare che comitati «no-tutto» ed enti locali spesso si oppongono anche alla realizzazione dei campi di stoccaggio con il risultato che la capacità italiana di accumulo è di 14,7 miliardi di metri cubi con il rischio di intaccare le riserve strategiche in casi di emergenza come accaduto nella crisi ucraina del 2006.
Il problema non si esaurisce solo con l’annosa carenza infrastrutturale. Si tratta di definire una vera e propria politica energetica. A partire dall’utilizzo del gas stesso: nel 2010 il 25,4% è stato destinato agli usi industriali e il 41,7% (35,8 miliardi di metri cubi) alla produzione di energia elettrica. Si comprende bene che la rinuncia al nucleare implichi un sempre maggiore sfruttamento di questa fonte energetica. Ecco perché la diversificazione è importante.
L’Italia potrebbe essere in grado di produrre biometano (ottenuto da residui zootecnici e sottoprodotti agricoli) per soddisfare fino al 20%, ha rilevato il Consorzio Italiano Biogas. Non meno necessaria una razionalizzazione della distribuzione con nuovi investimenti, oggi resi più difficili da un mercato finora frammentato in centinaia di piccoli operatori comunali, come sottolinea Intesa Sanpaolo in un convegno in programma oggi.