Gli interventi sulla norma-totem dei sindacati, salvo modifiche in parlamento. Il licenziamento per motivi economici è legato «all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro». Il principio ispiratore della riforma: protezione sul mercato, non il posto di lavoro. L’Aspi sostituirà l’attuale indennità di mobilità
I discriminatori
Resta intatta la norma che li considera nulli, dunque come mai avvenuti, e continua a valere anche per le aziende sotto i 15 dipendenti. Il licenziamento viene considerato discriminatorio se è determinato da ragioni di credo politico o fede religiosa, dall’appartenenza a un sindacato e dalla partecipazione a attività sindacali. Oppure nella formulazione più recente, in caso di «discriminazione sindacale, politica, religiosa, razziale, di lingua o di sesso, di handicap, di età o basata sull’orientamento sessuale o sulle convinzioni personali». E ancora, quando è intimato in concomitanza col matrimonio oppure dall’inizio della gravidanza fino al compimento di un anno di età del bambino o dalla domanda o dalla fruizione del congedo parentale e per malattia del bambino. Infine se è determinato da un motivo illecito. In tutti questi casi il giudice ordina la reintegrazione del lavoratore, anche dirigente, nel posto di lavoro indipendentemente dalla motivazione adottata e quale che sia il numero dei dipendenti occupati. È previsto anche il risarcimento del danno attraverso un’indennità commisurata all’ultima retribuzione globale dal giorno del licenziamento al reintegro, e il pagamento dei contributi. Non cambiano nemmeno le norme che consentono al lavoratore di rinunciare al reintegro in cambio di un’indennità.
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Sono tali i licenziamenti intimati per giusta causa (comportamento grave che non consente la prosecuzione del rapporto, come ad esempio i furti o le risse) o per giustificato motivo soggettivo (notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del lavoratore, insomma i «fannulloni»).
In questo caso il governo innova nel senso che tali licenziamenti, qualora il giudice accerti l’insussistenza delle motivazioni del datore di lavoro (l’onere della prova sta al lavoratore), comportano la risoluzione del rapporto di lavoro dalla data del licenziamento e la condanna del datore di lavoro (per le aziende sopra i 15 dipendenti) a un’indennizzo tra le 15 e le 27 mensilità. Il reintegro del lavoratore, così come previsto dall’attuale articolo 18, resta solo per alcuni casi. Si avrà diritto al reintegro, secondo la nuova normativa, qualora il fatto contestato al lavoratore non sia stato commesso o se rientra tra le ipotesi previste dal contratto collettivo. In questi casi sarà corrisposta anche un’indennità risarcitoria e verranno versati i contributi. Il lavoratore potrà chiedere al posto del reintegro l’indennizzo.
Gli economici.
Sono quelli più controversi. Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, altrimenti detto per motivi economici, è sostenuto da ragioni che attengono «all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa». Cioè dalla crisi dell’impresa (sempre sopra i 15 dipendenti), dalla cessazione dell’attività e, anche solo, dal venir meno delle mansioni cui era in precedenza assegnato il lavoratore, se non è possibile il suo «ripescaggio», ovvero la ricollocazione del medesimo in altre mansioni esistenti in azienda e compatibili con l’inquadramento. Finora la normativa prevedeva che tale lavoratore potesse andare dal giudice, se riteneva insussistenti i motivi del licenziamento. Al giudice era preclusa la valutazione sui criteri di gestione dell’impresa, in quanto considerati espressione della libertà di iniziativa economica. Al giudice, insomma, spettava soltanto il controllo circa l’effettiva sussistenza del motivo del datore, sul quale gravava l’onere di provare l’inutilità della singola posizione e l’impossibilità di adibire il lavoratore ad altra collocazione. Fatto sta che se i motivi economici non c’erano, l’attuale normativa prevedeva il reintegro del lavoratore, il risarcimento del danno e la corresponsione dei contributi.
La novità del nuovo testo è che l’inesistenza del giustificato motivo oggettivo, accertata dal giudice, determina solo il pagamento di un’indennità tra le 15 e le 27 mensilità e non più il reintegro. Prima del licenziamento è prevista una procedura di conciliazione in cui il lavoratore è assistito dai sindacati. Se la conciliazione produce la risoluzione consensuale del rapporto, il lavoratore sarà aiutato nel ricollocamento. In caso contrario si andrà dal giudice con le conseguenze già dette. La Cisl e la Uil hanno chiesto che nel testo venga specificato che se nel processo emergono motivi diversi da quello economico, cioè «discriminazioni, abusi, irregolarità nelle procedure o motivi disciplinari», il giudice annulli il licenziamento. Il governo sembra orientato a accettare la formulazione che, qualora il licenziamento rientri sotto la fattispecie disciplinare o discriminatoria, se ne applichi la relativa discliplina.
ROMA – Protezione sul mercato invece di protezione sul posto di lavoro ed estensione a tutti i lavoratori, anche quelli con meno esperienza. E’ questo il salto culturale della riforma degli ammortizzatori sociali, che entreranno in vigore, a regime, nel 2017, con una «dote» di circa 1,7 miliardi. Alla base del nuovo sistema di sostegno al reddito c’è l’assicurazione sociale per l’impiego (Aspi), che sostituirà l’attuale indennità di mobilità. «L’Aspi riguarda tutti. Si passa da qualcosa di limitato a qualcosa di universale. E partirà il prossimo anno», ha spiegato il ministro del Welfare Elsa Fornero, annunciando anche «una mini Aspi per i lavoratori più giovani».
L’Aspi si applicherà a tutti i lavoratori con un contratto a tempo determinato del settore privato e pubblico, e sarà estesa agli apprendisti e agli artisti, finora esclusi da ogni strumento di sostegno al reddito. Per poter accedere all’Assicurazione si devono avere gli stessi requisiti dell’indennità di mobilità: due anni di anzianità e almeno 52 settimane nell’ultimo biennio. L’assegno dovrebbe essere pari al 70% della retribuzione fino a 1.250 euro e il 30% per la quota superiore a questa cifra, ma c’è anche un’ipotesi al 75% del salario fino a 1.150 euro e il 25% per la quota superiore a questa cifra. In ogni caso è fissato un tetto massimo di 1.119 euro. Tutti i lavoratori dovranno contribuire all’Aspi, con modalità diverse a seconda della forma contrattuale: l’aliquota sarà dell’1,3% per chi è assunto a tempo indeterminato, incrementata da un’addizionale dell’1,4%, dalla quale saranno esclusi i contratti a termine stagionali e i contratti per sostituzione. Per questi l’azienda dovrà versare solo l’1,3%, che scende ancora per le piccolissime aziende.
La durata dell’Aspi dipenderà dall’età. Lo spartiacque sono i 55 anni. L’assegno dell’assicurazione durerà 12 mesi per chi un’età fino a 54 anni e fino a 18 mesi dai 55 anni in su. Il problema è che la scomparsa della mobilità rischia di penalizzare soprattutto i lavoratori over 50, cioè proprio chi ha più difficoltà a trovare un nuovo posto di lavoro. Oggi, in caso di licenziamenti collettivi, la mobilità dura 36 mesi, che si allungano fino a 48 mesi per gli ultracinquantenni al Sud. Perciò si sta studiando un meccanismo affinché dal 2017, quando entrerà a regime l’Aspi, la dotazione del fondo di mobilità (circa 700 milioni) sia usata per sostenere il reddito dei lavoratori con oltre 58/60 anni o per integrare l’Aspi oltre i 18 mesi previsti.
Tra le novità per «far cambiare la mentalità» e conciliare i tempi del lavoro con quelli della famiglia, la riforma introduce una sperimentazione della paternità obbligatoria. Per ora si sa che la sperimentazione durerà tre anni e sarà finanziata dal ministero del Lavoro. L’Europa chiede almeno due settimane di congedo obbligatorio per i neopadri, nel Parlamento italiano c’è una proposta bipartisan che parla di 3 giorni. La riforma degli ammortizzatori sociali cancella la Cassa integrazione in deroga, introdotta dall’ex ministro Maurizio Sacconi nel 2009 per estendere i sussidio alle piccole imprese e ai settori finora esclusi dalla Cig, ma ne userà i fondi, rendendoli strutturali, per finanziare l’Aspi. «Ci dicono che abbiamo tenuto la Cassa integrazione in deroga ma non è vero. Abbiamo tenuto i fondi. Abbiamo chiesto che questi fondi, che venivano trovati ogni anno là dove il bilancio consentiva qualche elasticità, fossero resi strutturali e utilizzati per l’Aspi», ha precisato il ministro.
La cassa integrazione ordinaria per l’industria non viene abolita, ma per i settori oggi esclusi sarà istituito un fondo di solidarietà. Servirà però un’iniziativa dei contratti collettivi nazionali o un intervento legislativo. Resta pure al Cig straordinaria, con alcune novità: non sarà più concessa per cessazione di attività e mobilità.