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Finanziamenti, oggi la riforma Monti: sì al decreto se c’è l’intesa. Partiti da finanziare? Sia chiaro chi e come lo fa

LA RIFORMA. Si teme che l’idv possa mettersi di traverso. Ma rispunta la «legge-mancia». No dell’Udc: una proposta lunare. Movimenti politici modello public company e lontani dal potere economico

ROMA – Magari i partiti italiani non diventeranno mai case di vetro, ma un primo passo verso la trasparenza sta per essere compiuto. Stasera stessa, con un blitz virtuoso che ha pochi precedenti nella storia recente del Parlamento italiano, le forze politiche che sostengono il governo Monti partoriranno un testo di riforma, pensato per accorciare la distanza tra eletti ed elettori e alzare un argine al vento dell’antipolitica. Quattro, al massimo cinque articoli di legge con cui Angelino Alfano, Pier Luigi Bersani e Pier Ferdinando Casini sperano di imprimere una svolta dopo gli scandali divampati nella Lega Nord e nella ex Margherita. Nel pomeriggio, dopo che i partiti avranno fatto il punto in riunioni separate, gli «sherpa» di Pdl, Pd e Terzo Polo siederanno per la prima volta al tavolo della riforma e tradurranno in articolato i princìpi enunciati dai leader. Tra gli addetti ai lavori ci saranno Massimo Corsaro e Rocco Crimi per il Pdl, Gianclaudio Bressa e Antonio Misiani per il Pd, Gianpiero D’Alia e Benedetto Della Vedova per il Terzo Polo. Casini ha proposto di velocizzare l’iter con un decreto del governo e Bersani sarebbe anche d’accordo, ma Alfano si è opposto con forza, aprendo la strada all’ipotesi che il testo della riforma finisca nel decreto sulla semplificazione fiscale. Oppure, come è più probabile, che venga approntato nelle commissioni Affari costituzionali in sede legislativa, senza passare per le Aule di Camera e Senato.

Ma durante la missione in Medio Oriente il premier non esclude l’ipotesi di accelerare il viaggio delle nuove norme. «Potremmo anche intervenire con un decreto — ha confidato Mario Monti —, ma solo se saranno i partiti a chiederlo». Ci vorrebbe insomma un accordo di massima tra i leader e la certezza che le perplessità del Pdl sono state superate. «È assolutamente materia per il Parlamento — aveva avvertito Maurizio Gasparri —. Le decisioni del governo nella vita dei partiti erano tipiche dell’Urss». Se tutto andrà bene e gli «sherpa» sforneranno un testo condiviso, nelle prossime ore potrebbe esserci un nuovo vertice a Palazzo Chigi tra Monti e i segretari dei partiti, per fare il punto sul merito delle proposte e sullo strumento legislativo con cui intervenire. Il quadro può ancora mutare, ma al momento l’orientamento prevalente, vista la difficoltà di conciliare le posizioni, è che il provvedimento sia incentrato sulla trasparenza e non sui tagli ai rimborsi pubblici. Misure simboliche? Sì, forse. Molti potrebbero restare delusi, eppure sembra questa l’unica via per dare un segnale ai cittadini senza minare l’unità della maggioranza. La stesura di uno statuto dei partiti in attuazione dell’articolo 49 della Costituzione (ora all’esame della commissione Affari costituzionali della Camera), tema caro a Bersani e Casini ma non graditissimo al Pdl, verrà stralciata dal testo. E i tecnici non si concentreranno sui tagli ai finanziamenti, quanto su sanzioni e certificazione dei bilanci. E qui bisognerà trovare una mediazione tra chi invoca la Corte dei Conti e chi invece suggerisce un’Authority esterna. Il clima è teso. Lo scandalo della Lega impone un’accelerazione, ma al contempo contribuisce a surriscaldare gli animi. E ieri, a sorpresa, è rispuntata la famigerata «legge mancia», una norma che consente ai partiti di assicurare finanziamenti a pioggia a enti o istituzioni di loro interesse. «È lunare che se ne parli oggi, noi siamo indisponibili — è lo stop che Gianluca Galletti dell’Udc scolpisce su Twitter —. Noi non ci stiamo».

C’è voglia di voltare pagina, ma c’è anche molto nervosismo. L’Idv sta raccogliendo le firme per abrogare i rimborsi pubblici per via referendaria e il Pdl teme che Antonio Di Pietro si metta di traverso, impedendo che la riforma del finanziamento venga approvata per via legislativa: un iter che richiede il via libera di un’altissima maggioranza. «Noi siamo pronti a collaborare a una buona legge — non scopre le carte Di Pietro —. Ma non voteremo nulla a scatola chiusa». E Bersani, vista l’aria che tira, chiarisce che da anni il Pd si fa certificare i bilanci da una società di revisori: «Io non ci sto a essere messo nel mucchio». Stasera sapremo se i partiti fanno sul serio o se, come teme Emma Bonino, dal tavolo uscirà solo «una riformetta». Fosse per il segretario dei Radicali, Mario Staderini, i rimborsi pubblici verrebbero azzerati oggi stesso, per passare al sistema americano: «Solo donazioni di privati».

Monica Guerzoni

I PARTITI – La corsa verso la purificazione della politica si è fatta affannosa con l’esplosione degli scandali della Lega, il partito che a Montecitorio agitava il cappio contro gli inquisiti di Tangentopoli e ora balbetta che il suo capo, Umberto Bossi, sarebbe l’unico segretario che poteva non sapere delle mene di familiari e famigli. Sotto traccia, serpeggia il timore che qualche magistrato possa verificare la congruità delle spese cosiddette elettorali per le quali i partiti hanno avuto rimborsi così abbondanti. Ma in fondo a giustificare l’affanno basta il discredito generato da tanto malaffare su una politica che già aveva abdicato a favore dei tecnici. E però, con l’affanno, si rischia di buttare via il bambino con l’acqua sporca.

Ogni Paese ha i suoi scandali. Al termine del mandato presidenziale, Jacques Chirac deve rispondere di tangenti alla giustizia francese. In Germania, un gigante come Helmut Kohl ha lasciato per versamenti irregolari al partito. E tuttavia gli uomini non possono convivere senza politica. E la democrazia, pur macchiata spesso dalla corruzione, è sempre meglio dei regimi autoritari, dove, di regola, la corruzione è superiore. Ma in una democrazia è preferibile che la politica — organizzata in partiti o in comitati elettorali — sia finanziata soltanto da soggetti privati, con risorse proprie e senza sconti fiscali, oppure che vi si provveda in un regime misto, pubblico e privato, ma, a questo punto, tutto da reinventare? L’Italia ha sperimentato entrambi i regimi. Nei trent’anni seguiti alla Liberazione, i partiti vivevano dei contributi di iscritti e benefattori, i quali ultimi erano imprese di varia grandezza ed enti e governi stranieri. L’articolo 49 della Costituzione prevede che i partiti concorrano in modo democratico alla politica nazionale. Non è chiaro come l’articolo 39 che impone la registrazione dei sindacati e la vincola all’adozione di statuti democratici. Ma il significato di fondo è lo stesso. Eppure, nessuno dei Padri della Patria volle mai dare a nessuno il destro per mettere il naso nei fondi elargiti dall’Eni e dalla Edison, dalla Fiat e dai petrolieri, dai sindacati americani o dal Cremlino. Quel regime privatistico e opaco finì tra gli scandali e così, dal 1974 ai giorni nostri, si sono susseguite diverse normative per regolare il finanziamento pubblico, ma nessuna è stata in grado, fin qui, di evitare l’appropriazione privata dei benefici del controllo della cassa e del partito. Tornare a un finanziamento interamente privato ma trasparente, sul modello americano, può sembrare l’uovo di Colombo. Ma lascia aperta la strada all’influenza dei poteri corporati dell’economia sul governo del Paese. La sterminata legione degli ultimi e dei penultimi diventerebbe la carne di cannone dei primi. Le donazioni di Wall Street e la correlata ascesa politica dei suoi banchieri hanno avuto un gran peso nell’affermare la deregulation dei mercati finanziari che ha poi determinato la Grande Crisi. Ma come conciliare allora il finanziamento assennato della politica con l’eguaglianza dei diritti politici dei cittadini? In un regime democratico e liberale, nessuno potrà impedire alla grande azienda o alla grande banca di dare soldi a un partito o a un uomo politico, ma tutti possono esigere che avvenga senza bonus fiscali e che venga immediatamente registrato e reso noto online a partire da cifre minime. Così ciascuno potrà verificare se certe battaglie abbiano connessioni con certi denari.

Ma perché non prevedere, accanto e in competizione con questa forma di finanziamento elitaria, anche altre forme più diffuse e adatte a un Paese dove ancora votano i due terzi dei cittadini e tutti dicono di non volere l’astensionismo di massa? In questi giorni si parla di tagliare i rimborsi elettorali (basterebbe stabilire un tot a voto ottenuto) e di aprire ai partiti il 5 per mille nella dichiarazione dei redditi delle persone fisiche. Sarebbe un passo avanti. Ma si potrebbe anche arrivare ad altre soluzioni, un po’ meno comode e po’ più egualitarie. Viene in mente quella cui sta lavorando l’economista Pellegrino Capaldo: poter donare ai partiti vecchi e nuovi e agli istituti di cultura politica fino a 2 mila euro a persona con un credito d’imposta pari al 95%; con 100 euro di onere personale se ne darebbero 2 mila al partito. Tutte le proposte sono perfettibili. L’importante è che i partiti diventino delle vere public company ovvero, se vogliono avere un padrone o pochi azionisti di riferimento che li mantengono, che lo si sappia. In ogni caso, trasparenza vorrebbe che, con bilanci consolidati e certificati, siano leggibili entrate e costi, passività e attività. A cominciare dalla proprietà del simbolo. Che nella tanto bistrattata Prima Repubblica era intestata al segretario pro tempore e non invece a una o più persone fisiche. Come accade, per esempio, nella Lega.

Massimo Mucchetti

Finanziamenti, oggi la riforma Monti: sì al decreto se c’è l’intesa. Partiti da finanziare? Sia chiaro chi e come lo faultima modifica: 2012-04-11T15:18:58+02:00da
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