I RISPARMI – TAGLI ALLA SPESA – IL DECRETO, capitolo sanità. Piano per militari e dirigenti. Enti locali decideranno da soli. Prevista la cessazione di attività con meno di 80 posti letto. La protesta dei governatori. Balduzzi: «Nessun automatismo»

ROMA – Potrebbero arrivare a 200 mila i posti tagliati dagli organici della pubblica amministrazione in base al decreto sulla spending review che tra giovedì e venerdì dovrebbe arrivare in Consiglio dei ministri. Potrebbero, perché solo una parte di quei tagli, circa 55 mila, sono certi, mentre il resto è affidato alla scelta di Regioni ed enti locali. Come si arriva a quel numero?
Il decreto dice che per i ministeri e gli enti pubblici sarà applicata la regola già seguita dalla presidenza del Consiglio e dal ministero dell’Economia: taglio della pianta organica, cioè dei posti a disposizione, pari al 20% per i dirigenti e al 10% per gli altri dipendenti. Tra enti pubblici non economici e ministeriali – considerando solo quelli «puri» cioè senza insegnanti, magistrati o medici – il settore conta circa 300 mila lavoratori. E dunque, secondo le stime del governo, questo capitolo dovrebbe portare a una riduzione di 30-35 mila posti. Il ministro per la Pubblica amministrazione, Filippo Patroni Griffi, dice che i «tagli non saranno lineari ma selettivi e saranno possibili delle compensazioni». Il 10 e il 20%, cioè, dovranno essere il risultato finale dell’operazione, il dimagrimento imposto ai ministeri nel loro complesso. Ma i tagli potranno essere più pesanti in alcuni casi e più leggeri in altri, del 5% alla Giustizia e del 15% all’Interno, ad esempio. Per fissare i singoli obiettivi, da decidere entro ottobre, si terrà conto dei carichi di lavoro, dell’età media (solo il 9% ha meno di 35 anni) e delle assunzioni fatte negli ultimi anni.
Più semplice il calcolo per i militari che seguiranno una strada a parte, senza distinzione tra dirigenti e non. Per loro ci sarà un decreto che ridurrà il «totale degli organici in misura non inferiore al 10 per cento». Sono circa 200 mila persone e quindi la riduzione dovrebbe essere di 20 mila posti. Anche la scuola è un settore a parte, ma qui nulla dovrebbe cambiare perché il decreto dice che «continuano a trovare applicazione le specifiche discipline di settore». Fin qui i 55 mila tagli «automatici», anche se la procedura è in realtà complessa e la vedremo dopo. La fetta più grande della torta, però, riguarda Regioni ed enti locali. Considerando anche la sanità, il bacino conta 1 milione e 200 mila lavoratori e il decreto potrebbe portare al taglio di circa 150 mila posti. Ma i risultati sono tutti da verificare e in ogni caso i tempi non saranno brevi. Dall’alto lo Stato non può imporre nulla e infatti il decreto si limita a offrire lo stesso schema (riduzione del 10 e 20%) anche alle amministrazioni periferiche che potranno decidere se utilizzarlo oppure no. A prima vista la strada sembra stretta: i Comuni, ad esempio, sono disponibili a ragionare sulla pianta organica, ma non vogliono nemmeno sentir parlare di blocco del turn over, previsto anche per loro con il tetto di un’assunzione ogni cinque pensionati. Tanto più che col decreto spending review ai municipi verranno chiesti ulteriori risparmi. Quelli sotto i mille abitanti dovranno mettere insieme tutte le funzioni fondamentali e quelli tra mille e 5 mila gestire in consorzio almeno tre funzioni. Di conseguenza i dipendenti dovranno diminuire. In cambio, però, il governo offre alle amministrazioni periferiche la possibilità di utilizzare tutti quei meccanismi pensati per attutire il colpo sui ministeriali. E qui torniamo alla procedura complessa che prima abbiamo solo accennato. Nessun dipendente pubblico verrà mandato via dall’oggi al domani. Una volta fissati i tagli per le singole amministrazioni, i ministeri dovranno vedere se riusciranno a scendere sotto quella soglia con i pensionamenti già programmati tra 2013 e 2014. Se ci riescono non devono fare altro.
Altrimenti c’è l’obbligo di procedere ai prepensionamenti: si parte da chi ha maturato i requisiti previsti prima della riforma Fornero. Chi lascia prende subito l’assegno mensile ma dovrà aspettare un anno per incassare la liquidazione. Poi si passa a chi, a prescindere dall’età anagrafica, ha già 40 anni di contributi: per loro il pensionamento era facoltativo e diventa obbligatorio. Se non basta si comincia con la mobilità. Chi entra in questo percorso prende l’80% dello stipendio base ma, se non viene ricollocato, passati due anni viene licenziato. Come verranno scelte le persone da mettere in mobilità? Per evitare il muro contro muro si prevede il coinvolgimento dei sindacati, con una procedura simile allo stato di crisi delle aziende private. Ma forse non basterà a superare i dubbi dei rappresentanti dei lavoratori. «Questo decreto porta il malato in sala operatoria senza avergli fatto una radiografia», dice Giovanni Faverin, segretario della Cisl funzione pubblica. Per lui, «per fare un lavoro serio servono 2-3 anni». Altrimenti? Prima di fare il sindacalista Faverin lavorava in ospedale. E torna alla metafora medica: «Altrimenti rischiamo di tenere la gamba malata e tagliare quella buona».

QUESTIONE SANITA’ – Pochi minuti prima di andare all’incontro con i rappresentanti delle Regioni, allarmati dalle notizie di nuovi tagli alla Sanità, mercoledì pomeriggio il ministro della Salute, Renato Balduzzi, ha chiarito che «nessuna chiusura automatica di ospedali verrà imposta da Roma», spiegando però che «è sicuramente necessaria una riorganizzazione della rete ospedaliera che porti a una riduzione di costi di gestione e ad una maggiore appropriatezza delle prestazioni». Se di automatismo si trattasse, come si intuisce dalla bozza di decreto che parla di misure da parte delle Regioni per prevedere, entro il 31 ottobre 2012, la cessazione di ogni attività dei presidi ospedalieri con meno di 80 posti letto, a chiudere sarebbero circa 149 strutture di ricovero. Tanti stando alla banca dati del ministero della Salute, aggiornata al 2007, sono i mini-ospedali.
A RISCHIO – Nel frattempo alcuni potrebbero essere già stati chiusi o in fase di riconversione. Quasi tutti sono in piccoli centri, per esempio, sempre con i dati 2007, in Lombardia l’Incra di Casatenovo, in Veneto l’Istituto Oncologico di Padova, in Campania ne verrebbero chiusi 5 su 15 in provincia di Salerno, le Marche avrebbero una quindicina di strutture chiuse, 20 sia nel Lazio che in Calabria. Ma secondo il ministro non si dovrebbe trattare di tagli con «l’accetta», per usare la definizione del premier Mario Monti, ma di andare di cesello. Parole che non hanno placato la protesta. Il presidente della conferenza delle Regioni, Vasco Errani, è uscito dal ministero scuotendo la testa: «Così non può funzionare. Si tratta di tagli lineari». I governatori sono pronti a discutere, ma respingono quella che definiscono «una manovra» e chiedono di stralciare la Sanità dal decreto per inserirla in un «patto per la salute».
POSTI LETTO – L’altro parametro del provvedimento sulla spending review che spaventa le Regioni taglierebbe sempre i posti letto. Si dovrebbero adottare, infatti, entro il prossimo autunno, provvedimenti di riduzione dello standard ad un livello non superiore a 3,7 posti letto per mille abitanti. C’è da dire che negli ultimi anni c’è già stata una riduzione dei posti e già così ci sono ospedali del Sud coi malati in barella. Nel 2005 un’intesa Stato-Regioni portava il rapporto a non più di 4,5 posti per mille abitanti, e ci si sta adeguando: stando alla media calcolata dall’Istat, al 2007 era 3,9, posti con picchi in Sardegna, Liguria e Molise. Ora, facendo i conti, ci potrebbe essere un’ulteriore riduzione di 12-14 mila posti letto. Ma non c’è solo questo nel decreto che il governo si appresta a varare. Intanto nel complesso, a fronte delle misure in cantiere, è prevista la riduzione del finanziamento al servizio sanitario di un miliardo quest’anno, 2 all’anno dal 2013, in maniera strutturale. Ed è questo che il ministro Balduzzi ha subito chiarito ai governatori.
TETTI DI SPESA – Per arrivare a tale cifra, verrebbero rideterminati i tetti della spesa farmaceutica territoriale (quella per i farmaci convenzionati) dall’attuale 13,3% della spesa sanitaria complessiva all’11,5% dal 2013, mentre il tetto della farmaceutica ospedaliera, sempre dal 2013, sale dal 2,4 al 3,2%. Tetto su cui le aziende pagherebbero dal 2013 il 50% dello sfondamento della spesa, e non quindi il 35% come prevedeva il decretone sanità. Il restante 50% del disavanzo a livello nazionale è a carico di quelle Regioni che hanno superato il tetto di spesa. Le industrie farmaceutiche si vedranno inoltre aumentare al 6,5%, anche se solo per l’anno in corso, lo sconto dovuto al Servizio sanitario nazionale. Farmindustria (aziende farmaceutiche) paventa scenari foschi: la perdita di 10mila posti di lavoro e la difficoltà ad assicurare i farmaci innovativi, quelli più costosi, con il risultato che i cittadini di «serie A» andranno a comprarsi i farmaci in Svizzera, mentre il servizio sanitario non potrà assicurarli agli altri. Nell’immediato secondo Federfarma (farmacie) il taglio «non potrà che tradursi in maggiori ticket e minori farmaci in prontuario».