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Il prete sgridato dal prefetto (e il vizio dell’arroganza)

Napoli Il parroco anti clan parlava dei roghi di rifiuti tossici. Chiamava «signora» la rappresentante del governo.

Un parroco di paese, don Maurizio Patriciello di Caivano, in una riunione negli uffici del Palazzo di governo a Napoli, si rivolge alla Prefetta (la forma sarà riconosciuta anche dalla Crusca?) di Caserta Carmela Pagano con un triplo, semplicissimo «Signora». Il parroco, in piedi attorno a un tavolo ovale, in una cornice di specchi, stucchi dorati, tendaggi azzurri, carta da parati, bandiere e autorità in cravatta, stava parlando dei rifiuti tossici che vengono accumulati e dati alle fiamme nell’indifferenza generale: «Stanno là, nessuno ha fatto niente, neanche un telo, e all’amianto antico è stato aggiunto amianto nuovo… Allora una mattina sono andato dalla signora senza appuntamento e la signora è stata così gentile da ricevermi, mi ha ascoltato… La signora voleva convincermi che questo problema non c’era…».

Il Prefetto di Napoli Andrea De Martino sta scrivendo qualcosa, ma al terzo «Signora» sbotta: «Quale signora, scusi?». «La signora», dice don Patriciello e indica la Prefetta di Caserta. «Quello è un prefetto della Repubblica», incalza il signor Prefetto di Napoli e avvia una filippica sul rispetto delle istituzioni, sul ruolo e sulle responsabilità affidate al rappresentante del governo. Il parroco, in maniche di camicia, è inchiodato sulla difensiva: «Non sono avvezzo a questi contesti, io sono un parroco… Non volevo offendere nessuno…». Risposta agitando per aria la matita: «No, lei l’ha offesa e ha offeso anche me».

Questo delizioso quadretto di ordinaria vita politico-amministrativa è andato in scena qualche giorno fa e non staremmo qui a parlarne se non fosse stato filmato e diffuso online dal Corriere del Mezzogiorno . E tutto sommato non è male poterne parlare, perché la visione di quel filmato apre due questioni eterne tipicamente italiane e altrettanto serie. Da una parte, il maschilismo linguistico che nasconde in tutta evidenza una discriminazione più profonda. La domanda è: avrebbe mai detto, don Maurizio, a proposito di un prefetto maschio «il Signore», «il Signore», «il Signore» senza precisare il grado, la funzione, la carica? Probabilmente mai, avrebbe aggiunto quasi per un riflesso automatico anche la qualifica. È vero, siamo talmente abituati a utilizzare gli appellativi autorevoli al maschile che quando si tratta di declinarli al femminile inciampiamo, scivoliamo, sbagliamo (non solo ma soprattutto noi uomini): è un esercizio a cui non siamo avvezzi, visto che l’altra metà del cielo rimane nettamente in minoranza nei ruoli che contano.

Dunque, seconda domanda: ha fatto bene il signor Prefetto di Napoli a sottolineare l’inadeguatezza del registro linguistico usato dal prete? Benissimo. Però. Però poteva anche fermarsi lì, senza esagerare. Esagerando, ha finito per spostare l’argomento da una questione civile molto seria (i rifiuti tossici) a un’altra questione molto seria che andrebbe affrontata (molto seriamente) in altro contesto. La sottolineatura, l’insistenza, la prossemica del dottor (saranno dottori anche i prefetti?) De Martino – e se non ci credete, provate a riguardare il video – erano decisamente sproporzionate rispetto all’occasione e al contesto.

Già, il contesto. Il tutto si svolgeva alla presenza di una ventina di sindaci, del questore, dei rappresentanti della Regione, della Provincia e delle Asl, infine dei comandanti dei Carabinieri, della Guardia di finanza, dei Vigili del fuoco. In quella cornice, don Maurizio Patriciello era certamente il meno qualificato (il meno dotato di qualifiche), e non perché la sua presenza fosse inopportuna o fuori luogo, ma perché era l’unico a rappresentare praticamente solo se stesso, come spesso accade ai preti-volontari di strada e di combattimento che Candido Cannavò in un bel libro chiamava «pretacci». Eccolo l’altro vizio tipicamente italiano: l’arroganza del più forte e l’umiliazione del più debole. Insomma, in quell’ambito la tirata di Sua Eccellenza De Martino somigliava più a un «Lei non sa chi sono io», anzi «Lei non sa chi è lei (la signora Prefetta)», anzi «Lei non sa chi siamo noi (i signori Prefetti e le signore Prefette)» che a una autenticamente risentita rivendicazione di pari opportunità. Dicendo «lei l’ha offesa e ha offeso anche me» il signor Prefetto alludeva alla sua categoria o alla sua sensibilità femminista?

Paolo Di Stefano

Il prete sgridato dal prefetto (e il vizio dell’arroganza)ultima modifica: 2012-10-21T17:15:58+02:00da
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