La decisione dei Gruppi parlamentari. Clima teso alla vigilia dell’incontro con il segretario del Pd: urla in riunione. Grillo diserta il «faccia a faccia». LE CONSULTAZIONI. L’ipotesi di inviare subito una personalità alle Camere per la fiducia.
I gruppi parlamentari del Movimento 5 Stelle all’unanimità hanno votato il «no» al sostegno a un governo guidato dal leader Pd Pier Luigi Bersani. La votazione alla Camera – nella serata di martedì 26 – alla quale era presente anche il capogruppo al Senato Vito Crimi, segue la decisione presa nel primo pomeriggio a palazzo Madama e la conferma.
GRILLO NON CI SARA’ – Nel corso della riunione del gruppo parlamentare grillino alla Camera è stato confermato che alle consultazioni con Bersani – prevista alle 1o di mattina di mercoledì 27 , incontro trasmesso in diretta streaming – andranno soltanto i due capigruppo, Lombardi e Crimi. Non ci sarà quindi Grillo anche se, secondo quanto si apprende e come è stato confermato da Claudio Messora, coordinatore della comunicazione del M5S, ci sono stati contatti telefonici tra Grillo e i due capigruppo. Inoltre i parlamentari avrebbero voluto confrontarsi con Grillo il giorno delle consultazioni al Colle ma il comico genovese ha preferito evitarlo per «non interferire».
CLIMA TESO – Seppure annunciato da tempo, il «niet» a Bersani appare sofferto. La discussione che precede il voto del gruppo alla Camera è stata piuttosto animata e si sono sentite anche delle urla. Da un parte chi vorrebbe in qualche modo assicurare un governo, dall’altra la linea netta del no ribadita da Lombardi che di fronte ad una eventuale proposta di governo terzo o super partes replica, sicura di non cadere in imboscate: «Forse Bersani approfitterà della diretta streaming. Ma noi non cambiamo idea. Diremo di no».
IL «NIET» – Il no a Bersani del capogruppo alla Camera M5S è ancora più esplicito: «Neanche se si butta ai miei piedi e mi implora di dargli un lavoro… Il gruppo è compatto – assicura Lombardi – e lo è anche al Senato».
ROMA – Da laico pragmatico che cerca sempre di proiettare le proprie scelte su schemi empiricamente dimostrabili, è ovvio che Giorgio Napolitano non creda nei prodigi. Sarà dunque difficilissimo, per non dire impossibile, per il segretario del Pd, dopo aver ammesso che per fare il suo governo «serve un miracolo», ottenere che il preincarico ricevuto si trasformi in un incarico pieno se non avrà verificato – e se non ne darà prova – «l’esistenza di un sostegno parlamentare certo».
Ora, poiché fino a ieri sera Bersani non aveva registrato (tranne qualche confuso segnale di fumo tutto da decifrare) concrete chance di guadagnarsi un voto di fiducia per dare il via a un esecutivo, sembra irreale per lui la speranza di incassare dal Quirinale il via libera per una sfida al buio. Anche se la fondasse su una lista di ministri di alto profilo e su un programma forte, rivendicando il diritto di un tentativo in aula, per inchiodare i singoli senatori alle loro responsabilità. Responsabilità che il candidato premier, come ha spiegato prendendo tempo fin quasi a Pasqua per chiudere la partita, potrebbero esser misurate «per gradazioni» diverse, distinguendo tra la scelta di «appoggiare, sostenere, consentire o magari opporsi condividendo però l’esigenza delle riforme», da parte delle forze politiche.
Così, ecco che il risultato elettorale ci riporta fatalmente alle alchimie della Prima Repubblica e alle formule escogitate allora per superare momenti critici assimilabili a quello di adesso. Ci fa ad esempio pensare alla breve ma utile stagione del governo «di tregua» di Giuseppe Pella, insediato dal presidente Einaudi nell’agosto 1953, dopo che le urne avevano sconvolto i precedenti equilibri. O, soprattutto, all’esperienza del governo «della non-sfiducia», guidato da Andreotti nel 1976 e che si resse sull’astensione del Pci negoziata tra l’uomo guida della Dc, Aldo Moro, e il comunista, Enrico Berlinguer.
Questo è il punto politico: posto che l’idea di Bersani si avvicini a tale modello e che sia concepita per contrattare a tutto campo il ricorso allo strumento delle uscite mirate dall’aula per abbassare il quorum e conquistare di volta in volta un via libera, c’è da dire che quella tecnica parlamentare si fondava su un accordo politico esplicito. Documentato dalla celebre foto della stretta di mano tra i leader e formalizzato da un documento ufficiale di Botteghe Oscure.
La domanda quindi è: potrà il Bersani che si affanna per mettere in cantiere un governo di minoranza vantare come sufficiente un’intesa del genere davanti a Napolitano? Se non sarà in grado di farlo e confidasse solo in qualche promessa sottobanco grazie a uno scouting sul Movimento 5 Stelle, oltre che sull’eterogeneo fronte (Pdl escluso) da lui consultato, l’investitura salterebbe. E anche evocare lo scenario che una settimana fa ha portato alla fortunosa elezione di Pietro Grasso e Laura Boldrini sarebbe inutile. In definitiva: dovrebbe rassegnarsi al fallimento e rinunciare.
In questo caso a rassegnarsi e a rinunciare non sarebbe però il capo dello Stato. Il quale cercherà comunque di dare vita al governo istituzionale (o del presidente o di scopo, a seconda dell’imprinting che avrà) fondato sulla grande coalizione di cui ha fatto cenno come uno sbocco ricorrente in Europa, per quanto abbia riconosciuto che da noi, nella situazione attuale, sarebbe invece arduo tenere a battesimo.
Potrebbe convocare al Quirinale nel giro di poche ore una personalità che probabilmente ha già individuato – si può immaginare un uomo politico con qualche esperienza istituzionale e di elevato standing in Europa, meglio se non digiuno di questioni economiche – e inviarlo alle Camere a farsi votare la fiducia. Mettendo lui, stavolta, la politica (e il Pd) di fronte alle sue responsabilità. Una decisione da prendere con urgenza sia perché le condizioni del Paese lo impongono sia perché dal 15 aprile le Assemblee dovrebbero convocarsi per eleggere il suo successore. E, se volesse sveltire i tempi, potrebbe perfino evitare un nuovo giro di consultazioni: basterebbe che si rifacesse a quanto disse Luigi Einaudi a Vittorio Gorresio, quando incaricò Pella: «La Costituzione non parla di consultazioni e si affida al criterio del capo dello Stato, e il mio criterio mi dice che in questo momento quello che è necessario è un governo».
Chi potrebbe criticarlo, dopo una giornata infernale come ieri, che ha gettato tutti nello sgomento, e soprattutto Napolitano? Con le dimissioni del ministro Terzi, per effetto dell’improvvida gestione dell’affaire dei marò. Con la polemica Grasso-Travaglio che ora vede in scena pure Caselli. Con il sottile Franco Battiato che a Bruxelles si sganghera a definire un «troiaio» il Parlamento. Con Le Monde che dà ormai per morto Mario Monti. Con rancori e tensioni che trapelano in casa del partito democratico. Insomma: prima si chiude, meglio è.