L’osservatorio. Oltre il 70% è pronto ad allontanarsi da casa per un impiego sicuro. Ma solo il 56 andrebbe in un altro Paese. LA TRATTATIVA SUI NUOVI CONTRATTI DI LAVORO. Il governo vuole una seconda lettura in Parlamento per garantire i partiti e le parti sociali. Il Pd preme su Camusso
Davvero i giovani italiani hanno in mente solo il mito del posto fisso e vedono con sfavore l’idea di mettersi in gioco in termini più imprenditoriali? E davvero tendono a cercare solo posti di lavoro vicini alla famiglia di origine? I dati di una recente ricerca scientifica, condotta tra i giovani fra i 18 e i 34 anni, ci aiutano a comprendere, al di là delle affermazioni e ipotesi che si sono succedute in questi giorni, come stanno realmente le cose.
La sicurezza e la stabilità del posto costituiscono senza dubbio, ancora oggi, l’elemento più attrattivo in un lavoro per la maggioranza relativa dei giovani italiani. Alla richiesta di scegliere qual è l’aspetto più importante in una occupazione, più di uno su tre cita senza esitazione il «posto fisso» che risulta contare assai più dello stipendio e ancor più dell’interesse del tipo di lavoro. Meno del 4% cita come elemento più importante la possibilità di fare carriera o quella di imparare cose nuove ed esprimere le proprie capacità. La posizione stabile rappresenta dunque per gran parte della popolazione giovanile (ma anche per quella più matura) il connotato più atteso. Il che è per molti versi comprensibile, dato che non tutti debbono possedere necessariamente uno spirito imprenditoriale e che, nella fase economica che stiamo attraversando, conquistare un posto fisso costituisce per molti un grande privilegio (anche se le ricerche condotte in passato mostrano come anche prima della crisi la stabilità dell’impiego abbia sempre rappresentato l’aspetto più ambito in una occupazione). Risulta particolarmente attratto dalla sicurezza del posto di lavoro chi possiede titoli di studio più bassi e, ovviamente, chi in questo momento è alla ricerca di un impiego.
Questi orientamenti sono confermati anche dalle risposte al quesito relativo alla preferenza tra un lavoro «sicuro anche se meno redditizio» e uno «meno sicuro con più prospettive di reddito»: quasi nove giovani su dieci (per l’esattezza l’84%) optano senza esitazione per la prima alternativa. La remunerazione può anche essere esigua, quello che importa è la sicurezza. Di qui una netta (per il 75%, con una diminuzione, comunque, rispetto a due anni fa quando era l’84%) predilezione per un mercato del lavoro «meno flessibile, con meno possibilità di licenziamenti, anche a costo di stipendi più bassi» piuttosto che uno «più flessibile, ma che favorisce stipendi più elevati». Al riguardo si riscontrano significative differenze territoriali, con una forte accentuazione a favore di una minor flessibilità del mercato del lavoro tra i giovani residenti nelle regioni meridionali (beninteso, anche la gran parte degli under 34 che abitano al Nord opta per quest’ultima alternativa).
Per conquistare il posto fisso, la netta maggioranza dei giovani italiani è disposta ad affrontare molti sacrifici, compreso quello di trasferirsi lontano da casa propria. In particolare, oltre il 70% – e ancor più tra i residenti nel meridione e nel Nord-Est – si dichiara pronto ad accettare un lavoro anche lontano dalla propria regione di residenza (ma il 30%, quasi uno su tre, non risulta disposto a una soluzione simile). Invece solo poco più di metà (56%) dei giovani italiani dice sì all’idea di un posto di lavoro, anche se fisso, in un altro Paese europeo: l’apertura appare molto maggiore tra i giovanissimi fino a 24 anni, mentre si attenua, forse a causa di famiglie già formate, tra chi ha tra i 25 e i 34 anni. È curioso notare che la disponibilità a trasferirsi appare relativamente più elevata tra chi possiede un diploma di scuola media superiore. I laureati, invece, forti del loro titolo di studio, appaiono paradossalmente più restii a spostarsi.
Questa è, dunque, la cultura del lavoro prevalente nelle nuove (ma anche nelle vecchie) generazioni del nostro Paese. Se è vero, come molti autorevoli studiosi e osservatori hanno sottolineato in queste settimane, che la prospettiva del posto fisso a vita è ormai sulla via del tramonto, travolta in particolare dai processi di globalizzazione e dalla sfavorevole congiuntura economica, è vero anche che questo mutamento pare accolto con grande sfavore e ostilità dagli italiani (e non solo da questi ultimi).
ROMA – Articolo 18: l’ultima parola al Parlamento. Il tentativo del governo di innovare il mercato del lavoro anche nella parte più controversa, relativa alla disciplina dei licenziamenti, potrebbe passare attraverso un iter legislativo speciale, che consenta al Parlamento di esprimersi fino all’ultimo sul dettaglio del provvedimento. Una modalità stringente che potrebbe rassicurare chi teme eventuali blitz del governo sull’articolo 18.
Va premesso che, a differenza dei tre provvedimenti emanati fin qui dal governo, la riforma del mercato del lavoro per la sua complessità non potrà essere racchiusa in un decreto. Quello che il governo potrebbe produrre questa volta è un disegno di legge delega che indicherà più o meno dettagliatamente le linee generali del provvedimento. Al disegno di legge seguiranno i decreti delegati, più specifici, che dovrebbero ripassare in Parlamento solo per un parere di congruità rispetto alla legge-madre.
Ora però è possibile che sui licenziamenti il governo si avvalga della prassi che consente di rinviare il decreto alle commissioni parlamentari competenti per un’ulteriore verifica, questa volta nel merito. Un modo per consentire al Parlamento un ultimo esame del testo.
Il motivo di tanta cautela è sotto gli occhi di tutti: il governo ha deciso che, nel mettere mano al capitolo del lavoro, non ci saranno tabù, nemmeno quello dei licenziamenti su cui altri governi sono andati a sbattere. La linea è chiara da tempo, ma il premier Mario Monti l’ha ribadita anche ieri, di ritorno da New York: riforma entro marzo «speriamo con l’accordo delle parti sociali». Ma anche no.
Al momento le posizioni in campo sull’articolo 18 sono almeno tre: quella della Cgil, disponibile a modifiche solo per accelerare l’iter processuale delle cause in materia di licenziamenti e contraria a sottoscrivere qualsiasi avviso comune che vada oltre.
La posizione della Confindustria, secondo cui la tutela offerta dall’articolo 18 con il reintegro sul posto di lavoro vada circoscritta soltanto ai licenziamenti discriminatori o nulli (per ragioni politiche, razziali, religiose o maternità), insomma quelli soggettivi.
E poi la posizione mediativa, incarnata da Raffaele Bonanni, leader della Cisl, che da giorni si spende per acquisire alla sua proposta il più ampio consenso possibile. Si tratta di uno schema che conferma il reintegro al posto di lavoro per i licenziamenti discriminatori ma anche per quelli disciplinari, cioè per motivi soggettivi.
Mentre per i licenziamenti individuali per motivi economici garantisce solo il pagamento di un’indennità di mobilità, così come prevede già oggi la legge 223 del 1991 che disciplina i licenziamenti collettivi per motivi economici per imprese con oltre 15 dipendenti.
Questa modalità garantisce una verifica sulla congruità del licenziamento da parte del sindacato e se questa ha esito favorevole, un accordo che contempla il pagamento dell’indennità di mobilità al lavoratore.
Sulla proposta la Cgil ieri ha sparato a zero su Twitter : «La proposta Cisl e Pd suscita obiezioni di sostanza, ammesso che le imprese accettino di trattare col sindacato i licenziamenti individuali» è la prima frecciata. E ancora: «Proposta Cisl e Pd sull’articolo 18: chi decide se il licenziamento è “giustificato”? Il sindacato? Il sindacato toglie al singolo il ricorso al giudice?». Quest’ultimo passaggio si riferisce al fatto che acconsentire che al lavoratore venga dato solo un’indennizzo, significa sottrargli la possibilità di rivolgersi al giudice per il reintegro.
Va registrato, però, che la Cgil adesso attribuisce la mediazione nata in casa Cisl anche al Pd. Una novità interessante, che pare quasi una provocazione tesa a verificare fino a che punto l’inedita alleanza dichiarata da Bonanni con Stefano Fassina, responsabile economico del Pd (di solito su posizioni più vicine alla sinistra del partito), corrisponda alla linea ufficiale dello stesso. Finora infatti il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, non ha fatto mai mancare il proprio sostegno al leader della Cgil, Susanna Camusso. Ma il Pd dovrà chiarire al suo interno se sostenere l’intangibilità dell’articolo 18 o votare la riforma Monti.
A pochi giorni dal nuovo incontro tra il ministro del Lavoro, Elsa Fornero, e le parti sociali, previsto per metà della prossima settimana, si cerca ancora una sintesi. Sapendo che la Confindustria in teoria non avrebbe bisogno di un accordo con i sindacati per ottenere quello che il governo ha già in mente di concederle. Che la Cisl, e in parte anche la Uil, sanno che il governo, in assenza di accordo tra le parti, potrebbe procedere per la sua strada, superando la loro mediazione. Che la Cgil potrebbe decidere di tenersi fuori da tutto, a meno che l’accordo tra le parti sociali non tenga fuori l’articolo 18, lasciandolo al confronto tra governo e partiti. Uno schema quest’ultimo, che ben si sposerebbe con l’idea del decreto delegato «speciale» sui licenziamenti.
Intanto già da domani le parti sociali proseguiranno gli incontri tecnici. Al momento ci sono dei punti di contatto sulla flessibilità in uscita, rispetto alla quale tutti concordano sulla corsia preferenziale per i processi, con la creazione di sezioni specifiche nei tribunali, o l’attivazione di procedure d’urgenza.
Sugli ammortizzatori sociali c’è convergenza su un sistema finanziato con il contributo di tutte le imprese e esteso a tutte le tipologie di lavoro, a prescindere dalle dimensioni di azienda. Sul punto Rete Imprese Italia frena, non volendo aumentare la propria contribuzione al sistema degli ammortizzatori. Domani l’associazione incontrerà i sindacati.
C’è accordo infine sulla necessità di rendere prevalente il contratto di apprendistato (tra i giovani) e di inserimento (per gli over 50), incentivandoli e agganciandoli seriamente alla formazione. Ancora distanze si registrano invece sullo sfoltimento della tipologia dei contratti.