L’UDIENZA. Nella cittadina emiliana 60 i morti secondo la procura. A Torino parlano gli operai: «Impossibili le maschere»
Alcuni ex dipendenti al processo |
TORINO – «L’amianto veniva portato in sacchi di tela che aprivamo con il coltello». A Rubiera, comune di 14.507 abitanti della provincia di Reggio Emilia) la gente moriva. Ma si dava la colpa al fumo. Lo racconta al maxiprocesso Eternit, in corso al tribunale di Torino Natale Corradini, operaio in pensione dello stabilimento Eternit di Rubiera. «La gente si ammalava, prendeva l’asbestosi e il cancro. E non erano mica pochi. Si dava la colpa al fumare, poi si è capito che forse la causa poteva essere quella lì, quella dell’amianto. Ma dai padroni di informazioni non ne abbiamo mai avute». Nella cittadina in provincia di Reggio Emilia la multinazionale dell’amianto aveva aperto, nel 1961, una delle filiali italiane, e gli effetti dell’esposizione al minerale hanno provocato, secondo le stime della procura, gravissime patologie – quasi tutte con esito mortale – a una sessantina di lavoratori e residenti.
IL VECCHIO OPERAIO – Corradini ha lavorato a Rubiera dal 1970 al 1987. «Nessuno mi ha mai detto che l’amianto era pericoloso. Ne parlavamo tra di noi. Ma l’azienda non ce lo diceva mica. E bisognava lavorare». A Torino, al maxiprocesso per i morti e i malati provocati dall’amianto, parlano e raccontano i vecchi operai, ancora vivi. «I frammenti più grossi li spezzavamo con la pala. C’erano gli aspiratori che però non riuscivano ad aspirare tutto».
MASCHERINE IMPORTABILI – Dopo aver ascoltato i testimoni relativi agli stabilimenti piemontesi di Casale Monferrato e Cavagnolo, si ora aperta la parte relativa allo stabilimento della città emiliana, dove sarebbero stati una sessantina ammalati e deceduti per le patologie legate alla lavorazione della fibra, come asbestosi e tumori. «L’azienda sapeva che l’amianto faceva male – ha detto ancora Corradini – perché c’erano i malati». L’ex dipendente ha raccontato le difficoltà a indossare le mascherine per proteggersi dalla polvere: «Mettevamo le mascherine, ma dopo un po’ le toglievamo perché non si riusciva a resistere con una temperatura 35-40° e le mascherine sulla faccia».
INERTE – L’azienda non forniva molte informazioni. Ennio Lusuaghi, ex collega più giovane, aggiunge. «Diceva che l’amianto era inerte e non faceva male. Tra noi operai, naturalmente, se ne parlava. Dal canto mio l’unica cosa che sapevo era che poteva provocare l’asbestosi. ». Poi, sollecitato da un avvocato difensore, ha precisato che un direttore di stabilimento lo avvertì che «quello era un ambiente di lavoro a rischio», senza comunque scendere in dettagli.
A NORMA DI LEGGE – Sia Corradini che Lusuaghi hanno riferito che ancora nei primi anni Settanta si trattava l’amianto blu, considerato il più pericoloso. «Poi, piano piano, la ditta ha smesso. Qualcuno doveva averglielo detto in un orecchio …». Quanto alle condizioni di lavoro, il primo particolare che è venuto alla mente è la polvere. «L’azienda – ha sottolineato Lusuaghi – diceva che era tutto a norma di legge». «I sistemi di aerazione», racconta ancora l’nziano operaio «dicevano che li avrebbero messi quando potevano: solo che non potevano mai …». Quanto agli indumenti di lavoro, venivano lavati a casa dalle mogli: «Tante volte – ha detto Corradini – abbiamo provato a chiedere che ci pensasse l’azienda, non ci siamo mai riusciti».
PREVENZIONE – I due operai hanno anche parlato della sorveglianza sanitaria sui dipendenti: «C’erano visite mediche, facevamo i raggi X». «La gente si ammalava – ha concluso Corradini – ma non si poteva andare in mutua perchè si veniva messi da parte. Io ebbi un infarto, al rientro mi spostarono di reparto e, dopo un anno, mi dissero che se volevo potevo andare in pensione. I colleghi che preferivano restare pensione finivano a fare lavori molto pesanti. Io in pensione ci sono andato. E sono ancora vivo».
L’ACCUSA E LA DIFESA – Per la prossima udienza è stato convocato come testimone il presidente della Regione Emilia Romagna. La procura di Torino contesta a due imputati, lo svizzero Stephan Schmidheiny e il belga Jean-Marie Louis de Cartier de Marchienne, il reato di disastro doloso in relazione a oltre 3 mila vittime dell’amianto nelle città italiane in cui erano presenti gli stabilimenti Eternit di cui sono stati responsabili a partire dal 1952 (Casale Monferrato, Cavagnolo, Rubiera e Bagnoli). I due imputati sono stati chiamati a giudizio in qualità, secondo l’accusa, «di effettivi responsabili della gestione della società Eternit Spa esercente gli stabilimenti di lavorazione dell’amianto siti in Cavagnolo, Casale Monferrato, Rubiera». Accuse repinte dalle difese. I legali di Louis De Cartier obiettano che il loro assistito «non ha mai ricoperto alcuna carica esecutiva in Eternit Genova e non è mai intervenuto operativamente nella gestione della società. Cartier è stato membro, senza deleghe, del Consiglio di Amministrazione di Eternit Genova per un breve periodo di tempo, all’inizio degli anni ’70, e non è mai stato responsabile della gestione di Eternit Genova».
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