Bandito da Mao come «inquinamento culturale», ora arriva in tv. L’emittente di Stato trasmetterà 50 episodi sul maestro di kung fu morto nel 1973
PECHINO (CINA) – Servirà a smussare le angosce della crisi finanziaria. E peccato che Bruce Lee non possa arrivare a cacciare indietro il mostro del tracollo globale. Meglio che niente: domani è l’ora del kung fu, Cctv1 — rete di punta della tv di Stato — trasmetterà i primi due episodi della sterminata serie dedicata all’uomo che negli anni Settanta lanciò in Occidente un genere cinematografico, le arti marziali made in Hong Kong. Senza «Dalla Cina con furore » e pellicole analoghe l’ispirazione di un Quentin Tarantino sarebbe stata un po’ meno ricca, senz’altro. Soprattutto, Lee gettò i semi di un orgoglio cinese che si scopriva globale: il linguaggio che allora rimbalzava fra Hong Kong e le comunità della diaspora— la California e la Malaysia, Singapore e l’Australia… — funzionava ovunque e affratellava. Bruce Lee è morto nel 1973 a 32 anni. Altri tempi. Un’altra Cina.
I FILM DI KUNG FU – La Rivoluzione culturale stava per imboccare la sua china terminale ma Mao Zedong aveva già marchiato i film di kung fu come inquinamento spirituale, robaccia reazionaria. Adesso quella stessa Cina che fino agli anni Ottanta aveva praticamente ignorato l’esistenza di Bruce Lee e dei suoi 46 film (ce n’erano anche di girati da sosia) metterà in onda 50 episodi costati, tutti insieme, 5 milioni di euro. Una ventina di Paesi si sono messi in fila per acquistarli. «La leggenda di Bruce Lee» doveva essere trasmesso sull’ottavo canale della Cctv prima delle Olimpiadi. Rinviato a causa del terremoto in Sichuan, è stato promosso al primo, per di più nella fascia definita l’«ora d’oro», ovvero il prime time, che qui va dalle 18 alle 22. Audience massima per l’eroe. La nuova Cina ha da anni assorbito l’estetica e l’etica delle arti marziali, la letteratura di genere è stata sdoganata e vende milioni di copie. Bruce Lee, che in realtà era nato a San Francisco, è stato incorporato, il suo orgoglio è ormai patrimonio comune dei cinesi tutti, per i quali è irrilevante che il loro eroe fosse di Hong Kong. Non a caso schiantava con speciale soddisfazione biechi giapponesi. «E’ il Picasso o il Van Gogh delle arti marziali», sentenzia uno dei produttori, Yu Shengli. Girato fra Macao, la Thailandia, gli Usa e persino l’Italia, il serial ha come protagonista Danny Chan Kwok Kuen, attore che anche alla figlia di Lee, Shannon, appare identico al padre. Giurano i creatori che un terzo di quanto si vedrà in tv è frutto dell’immaginazione, due terzi è fedele alla verità (e la verità dovrebbe includere anche la sua fobia per gli scarafaggi e i suoi trionfi come campione di ballo da sala). Il mito Lee è tale che il regista Zhang Yimou, ora in vacanza dopo le fatiche delle regie olimpiche, medita un film sullo stesso tema. Di questi 50 episodi si dibatte già fra appassionati. La produzione avverte che «il finale è aperto», come se non si chiudesse con la morte per emorragia cerebrale, un destino che l’epica vorrebbe invece più misterioso. Ciò che turba, più che altro, sono le voci di una scena in cui Lee verrebbe battuto da un americano. «Schifezze», si lamentano gli ultrà. Secondo indiscrezioni inverificabili sul web si tratterebbe di un momento edificante «per far vedere che bisogna essere umili».