Insulta un dipendente, a processo datore di lavoro. Aveva rifiutato di spalare la neve: offese continue per sette mesi. L’inchiesta si è chiusa con il rinvio a giudizio
MILANO – L’ufficio come una casa. I colleghi come i familiari. Le dinamiche sul lavoro sono le stesse di quelle tra parenti stretti e, quindi, il datore che assume «comportamenti vessatori» nei confronti di un dipendente deve rispondere di «maltrattamenti in famiglia». In assenza di una legge che punisca il mobbing, da tempo allo studio del Parlamento ma non ancora varata, la giustizia colma temporaneamente il vuoto e per la prima volta un giudice milanese rinvia a giudizio con questa accusa un imprenditore che aveva reso impossibile la vita a un suo operaio. Tutto comincia nell’inverno 2005 quando un operaio 27enne dice di no al titolare che gli aveva ordinato di spalare la neve caduta copiosa sul piazzale di una piccola azienda metalmeccanica dell’hinterland di Milano. Nonostante il compito non rientri tra le mansioni affidate al giovane, il «padrone-padre» non accetta il rifiuto che, anzi, sembra vivere come un affronto.
Uno sgarbo che tenta di lavare con sette mesi di continue aggressioni verbali che, come certificato da una perizia medica depositata agli atti, portano l’operaio sull’orlo dell’esaurimento nervoso. «Ti spacco la testa, te ne devi andare, mi stai sul c…., non sei un uomo, sei un ladro di stipendi»; oppure «a me non costa niente licenziarti, invece tu sei un pezzente»; o anche «quando ti vedo camminare per il mio magazzino mi viene da vomitare, questa è casa mia, mi consumi il pavimento », «se sei un uomo te ne vai»: questo il variegato campionario delle frasi ingiuriose finite nel capo d’imputazione stilato dalla Procura a carico dell’imprenditore. Non solo parole, anche fatti concreti, come la richiesta ai superiori diretti di «utilizzare pretesti per allontanarlo dall’azienda» o addirittura l’ordine di non farlo entrare in fabbrica e di «confinarlo» nella sala utilizzata per ricevere i clienti in modo da escluderlo dalla vita quotidiana dell’impresa. L’obiettivo, secondo l’accusa, era quello di provocare l’operaio, anche in presenza dei colleghi, al punto da indurlo a fare armi e bagagli licenziandosi da solo. Cosa che avvenne puntualmente. Con l’effetto, diciamo così, collaterale, di causargli «condizioni di vita lavorativa particolarmente penose» fino ad arrivare a farlo ammalare di un «disturbo dell’adattamento con ansia e umore depresso» che lo hanno reso incapace di «attendere alle ordinarie occupazioni » per oltre 40 giorni.
Dopo il licenziamento forzato, l’operaio si era rivolto anche al giudice del lavoro chiedendo di essere tutelato, ma il magistrato, dopo aver ascoltato i colleghi della ditta, non aveva accolto le sue rimostranze dandogli torto. Diversa, invece, la sorte dell’inchiesta penale nata da una querela presentata dall’operaio contro il suo ex datore di lavoro. La Procura ha raccolto di nuovo le testimonianze dei colleghi, che nel frattempo avevano lasciato l’azienda per altri lavori. Ma stavolta le deposizioni, evidentemente di tenore diverso, hanno permesso di chiudere l’indagine con una richiesta di rinvio a giudizio per maltrattamenti in famiglia aggravati. La richiesta è stata accolta dal giudice per l’udienza preliminare Alessandra Cerreti sulla base di una recente sentenza della Corte di Cassazione che, in un caso di abusi sessuali sul posto di lavoro, aveva ammesso la contestazione del reato di maltrattamenti in famiglia. La strada seguita dal Gup milanese si basa sulla considerazione che il rapporto di dipendenza gerarchica nell’ambiente lavorativo, dove i periodi di convivenza sono spesso superiori a quelli tra congiunti, è simile a quello all’interno di un nucleo familiare. L’uomo sarà processato agli inizi di febbraio in Tribunale dal giudice monocratico.