I 90 ANNI DEL SENATORE A VITA. «La Cia non lo voleva. Per Moro soffrì ma pensava che nessuno ci credesse»
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A cena Roma, 1987: Giulio Andreotti ricopre l’incarico di ministro degli Esteri. Qui siede accanto all’attrice Marisa Laurito durante una cena di gala Il campione e l’attrice |
Perché? «Montini, di famiglia altoborghese e cattolico liberale, era molto diverso da Andreotti, romano de Roma di origine frosinate e cattolico papalino. Proprio per questo, Montini ritenne di contemperare lo spirito mitteleuropeo di De Gasperi con quello pratico di Andreotti. E fece bene: mai visto un uomo con tali capacità di governo. Crocianamente, per lui come per la Chiesa l’unica moralità della politica consiste nel saperla fare». Da qui i rapporti della sua corrente con la mafia? «Tutti i partiti in Sicilia hanno avuto rapporti con la mafia, anche i comunisti. E non sempre a fin di male: fu la mafia a consegnare allo Stato il bandito Giuliano. Una stagione che si chiude solo quando la mafia decide la linea stragista».
Quando ha conosciuto Andreotti? «Avevo 17 anni. Gli ho sempre dato del tu e l’ho sempre chiamato Giulio, così come lui mi ha sempre chiamato Francesco. Però non ha mai dato confidenza sino in fondo a noi colleghi. Ha amici, ma tutti fuori dalla politica, quasi tutti preti: monsignor De Luca, monsignor Angelini. E poi Ciarrapico: un “burino” come lui. In comune con Moro ha il senso della corporeità: io ho preso sottobraccio tutti, da Fanfani a Giscard d’Estaing, mai però Moro e Andreotti. Non ho mai visto Andreotti abbracciare qualcuno. Eppure abbracciò me, quando dopo via Caetani andai a rassegnare le dimissioni da ministro degli Interni. Mi disse: “Ricorda che Palazzo Chigi resterà sempre la tua casa”. Fu profetico: l’anno dopo sarei stato il suo successore».
Come fu il passaggio di consegne? «Inconsueto. Andreotti mi lasciò tutto scritto. Conservo ancora i fogli intestati con la sua grafia. Tra l’altro, mi avvertiva che stava per scoppiare lo scandalo Petromin». Andreotti fece davvero tutto il possibile per salvare Moro? «Sì, tranne trattare. Però fu favorevole ad aprire un canale attraverso la Croce Rossa e Amnesty. Furono i comunisti a chiuderlo. È la prima volta che lo dico, ma Berlinguer e Pecchioli vennero al Viminale da me, con cui avevano più confidenza che con Andreotti, a dirmi: “Ora basta”». Non fu Andreotti a modificare il messaggio del Papa, specificando che Moro andava liberato “senza condizioni”? «Macché. Era Montini a dire ad Andreotti cosa doveva fare, non certo il contrario. Per Andreotti la morte di Moro fu un peso terribile. Lo ricordo bene mentre mi dice, nel suo studio di Palazzo Chigi: “Soffro molto Francesco, e soffro ancora di più perché non credono che io soffra”».
I rapporti tra i due non erano buoni. «Però non gli ho mai sentito dire una parola contro Moro, mentre non posso certo dire il contrario. A dire il vero, Andreotti non parlava mai male di nessuno. Tranne qualche battuta su Fanfani, con cui proprio non si prendeva. Poi rideva come fa lui, “ih ih ih” (il presidente emerito si produce in una buona imitazione di Andreotti). Intelligentissimo, al punto da fingere di non esserlo. Non parla mai in proprio favore. Curiale com’è, sa che in Curia si parla bene solo del Papa. Filoarabo, ebbe un ruolo decisivo nello sbloccare l’Exodus, la nave dei profughi ebrei». Uomo senza passioni? «No. Ama il gioco. Mangia e beve poco, dorme pochissimo; non l’ho mai visto dormire in aereo, neppure nei viaggi più lunghi; quando andammo in Australia, giocò tutto il tempo a carte con Susanna Agnelli, credo a scala 40. Con me, Sandra Carraro e Francesco Rebecchini giocava a poker: vinceva sempre lui. Ora si è appassionato al burraco, che io non so cosa sia. Tre o quattro volte mi ha portato a giocare ai cavalli. Ne parleremo lunedì (domani, ndr) a Porta a Porta, e gli ricorderò quando sbancai le Capannelle. Lui è un vero esperto, ma parsimonioso».
Andreotti ha raccontato a “Repubblica” di essere svenuto in Vaticano, turbato dal pianto di Pio XI, nel 1931. Cosa ci faceva un dodicenne nelle stanze papali? «Ma lui le ha sempre bazzicate. I Pueri Cantores, queste cose qui». Al punto da far nascere la diceria di una discendenza da Papa Pacelli. «Inverosimile. I Pacelli frequentavano molto più su della famiglia Andreotti…».
Com’erano i rapporti con i comunisti? «Berlinguer lo rispettava, ma ammirava davvero soltanto Moro. Andreotti però aveva sostenuto i partigiani e difeso i cattocomunisti: sapeva che i Rodano e i Balbo erano tra i credenti più accesi. Come lui: Andreotti era tra i pochi democristiani che andavano a messa ogni giorno, e mai ruppero la fedeltà coniugale». Craxi? «Con Craxi non si sono mai presi, anche se Bettino lo stimava molto come politico». Berlusconi? «Né Andreotti né io abbiamo mai votato per Berlusconi. Ad aprile lui ha votato Udc, io Pd al Senato e lista Ferrara alla Camera, anche se finora non lo sapeva nessuno, neppure Giuliano. Però sia Andreotti sia io abbiamo votato la fiducia a Berlusconi, perché siamo democristiani e per noi la governabilità è il primo valore. Abbiamo sostenuto pure Prodi, anche se la politica non era cosa per lui; come Andreotti gli aveva spiegato già nel ’78, quando lo congedò dal governo dicendogli che in quanto professore era sprecato per la politica».
Andreotti dice che porterà in Paradiso alcuni segreti di Stato. Quali, secondo lei? «Non so. Io di segreti non ne ho. Ricordo che quando nell’89 stavo per dare l’incarico ad Andreotti, Washington mi mandò un uomo della Cia per dirmi di non farlo: lo consideravano troppo sbilanciato in favore dell’Est. Chissà se è stato solo il difensore o anche il propugnatore dell’Ostpolitik vaticana».
Al tempo delle stragi, né Andreotti né lei sapevate qualcosa? «Io no. Forse qualcuno più su di me sì. Ma non Andreotti. Quando divenne ministro della Difesa, un suo amico militare gli consigliò: “Occupati di tutto, tranne che di commesse e di servizi segreti”, e lui gli diede retta. Il massimo esperto di servizi nella Dc era Moro. E comunque ogni strage ha un segno diverso e quasi tutte avvennero per errore: la bomba piazzata da mani di destra in piazza Fontana doveva esplodere a banca chiusa, i francesi centrarono il Dc9 di Ustica per sbaglio, come per sbaglio l’esplosivo palestinese deflagrò a Bologna».