I difensori: abbiamo combattuto per far riconoscere il suo disagio, ora è troppo tardi. La neobrigatista, ergastolo per il delitto Biagi, si è tolta la vita a Rebibbia. Il ministro Alfano: suo regime carcerario compatibile con sue condizioni
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Diana Blefari Melazzi in una foto del 2003 (Ansa) |
ROMA – La neobrigatista Diana Blefari Melazzi, accusata di concorso nell’omicidio del giuslavorista Marco Biagi, avvenuto a Bologna il 19 marzo 2002, si è impiccata nel carcere femminile di Rebibbia a Roma.
LENZUOLA ANNODATE – La neobrigatista si è impiccata sabato sera, attorno alle 22:30, utilizzando lenzuola tagliate e annodate. La donna – secondo quanto si è appreso – era in cella da sola, detenuta nel reparto isolamento del carcere Rebibbia femminile. Ad accorgersi quasi subito dell’accaduto è stato l’agente di polizia penitenziaria di sorveglianza che avrebbe sciolto con difficoltà i nodi delle lenzuola con cui la neobrigatista si è impiccata in cella e avrebbe provato a rianimarla senza però riuscirvi.
IL GUARDASIGILLI – Diana Blefari era «in una situazione carceraria compatibile con le sue condizioni psicofisiche, così come stabilito dall’autorità giudiziaria»: così il ministro della Giustizia, Angelino Alfano in una intervista al Tg5 sul suicidio della neobrigatista Diana Blefari. «Il 27 ottobre, la Cassazione aveva confermato la sua condanna all’ergastolo – ha aggiunto -. Abbiamo già avviato una puntuale e attenta inchiesta amministrativa che affiancherà quella giudiziaria, allo scopo di fare immediatamente luce sull’accaduto».
L’ingresso dell’ala femminile del carcere di Rebibbia (Ansa) |
UN SOLO AGENTE – «Nonostante il carcere di Rebibbia femminile sia quello più grande d’Italia e con la più grave carenza di agenti, il personale in servizio è stato tempestivo ed è subito intervenuto per prestare soccorso» a Diana Blefari Melazzi. A sottolinearlo è Leo Beneduci, segretario generale dell’Organizzazione sindacale autonoma di polizia penitenziaria (Osapp), che fa rilevare come di notte, in sezione, sia generalmente presente un solo agente che però ha la responsabilità di sorvegliare un numero sempre maggiore di detenuti visto l’elevato tasso di sovraffollamento delle carceri italiane. L’Osapp, inoltre, punta il dito contro la carenza di agenti a Rebibbia femminile dovuta anche al fatto che «da lì attingono gli uffici ministeriali per dirottare il personale verso attività amministrative non istituzionali. Su questo fronte – prosegue Beneduci – il capo del Dap Franco Ionta non è mai intervenuto, tanto che a Rebibbia femminile spesso saltano ferie e riposi». «Ciononostante – conclude l’Osapp – l’intervento dell’agente in servizio è stato immediato».
ERGASTOLO CONFERMATO – Lo scorso 27 ottobre, la Prima sezione penale della Cassazione aveva confermato la condanna all’ergastolo per la neobrigatista Diana Blefari Melazzi, accusata di concorso nell’omicidio del giuslavorista Marco Biagi, avvenuto a Bologna il 19 marzo 2002. Anche la Procura della Cassazione aveva chiesto la conferma del verdetto emesso lo scorso 9 gennaio dalla Corte di assise di appello di Bologna che aveva inflitto all’imputata il carcere a vita.
Diana Blefari in uan foto del 2005 nell’aula bunker di Rebibbia durante l’udienza per l’omicidio di Massimo D’Antona (Ansa) |
LA NOTIFICA POCHE ORE PRIMA – E proprio sabato pomeriggio Diana Blefari Melazzi si era vista notificare in carcere dagli uffici giudiziari di Bologna la notizia della condanna definitiva all’ergastolo. «Sono convinta – spiega oggi l’avvocato Caterina Calia – che la decisione della Cassazione per il delitto Biagi sia stata la classica goccia che ha fatto traboccare il vaso. Diana non ha mai accettato questa condanna da parte dei giudici di Bologna. Riteneva di essere estranea a quella vicenda. Non io personalmente, ma un altro collega, dopo la sentenza della Cassazione del 27 ottobre, era andato a Rebibbia per comunicarle la notizia. Sabato pomeriggio, però, il provvedimento le è stato notificato in cella».
L’IPOTESI– In queste ore sta emergendo l’ipotesi che Diana Blefari Melazzi avesse cominciato a collaborare con la giustizia. Sabato aveva avuto un colloquio in carcere con alcuni investigatori che risulterebbe non essere stato il primo e poco dopo le fu notificata dall’ufficio matricola del carcere la sentenza della Cassazione che la condannava definitivamente all’ergastolo. Poi il suicidio.
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In tribunale a Bologna (Ansa) |
PERIZIA PSICHIATRICA – Il gup del tribunale di Roma, Pierfrancesco De Angelis, lo scorso aprile, aveva disposto una perizia psichiatrica per verificare la capacità di stare in giudizio e quella di intendere e di volere di Diana Blefari Melazzi, dopo che la terrorista aveva aggredito nel maggio dello scorso anno un agente di polizia del carcere romano di Rebibbia. L’episodio, secondo i suoi legali, sarebbe stato uno dei tanti dovuti alle particolari condizioni psicologiche in cui versava la detenuta dopo la condanna all’ergastolo a Bologna. I difensori della brigatista gli avvocati Caterina Calia e Valerio Spigarelli, avevano chiesto la consulenza affidata al professor Antonio Pizzardi, sostenendo che Blefari non fosse in grado di presenziare al processo. Il 27 ottobre scorso, quando la Cassazione confermò la condanna all’ergastolo per Blefari, senza successo, l’avvocato Spigarelli cercò di contestare la legittimità della perizia medica eseguita nell’appello bis sostenendo che era di parte in quanto affidata ad un consulente del pm che si era già occupato del caso.
«ORA È TROPPO TARDI» – «Siamo sotto choc, abbiamo fatto tante battaglie, abbiamo cercato in tutti i modi di far riconoscere il profondo disagio di Diana Blefari Melazzi. Ora è troppo tardi». Così l’avvocato Caterina Calia, difensore, insieme all’avocato Valerio Spigarelli, di Diana Blefari Melazzi, commenta la notizia del suicidio a Rebibbia della brigatista. L’avvocato ricorda le numerose perizie psichiatriche a cui è stata sottosposta Diana Blefari Melazzi per verificare la sua capacità di stare in giudizio. Secondo la difesa della brigatista, Blefari soffriva di una grave patologia psichica e più volte le stesse difese avevano sollecitato il riconoscimento di tale situazione. Nel 2008 la brigatista in un momento di particolare tensione emotiva aggredì un agente di polizia penitenziaria. Anche in virtù di questo episodio per Blefari venne sollecitata l’ennesima perizia psichiatrica da parte della difesa. Ma il procedimento andò avanti e la brigatista per questo episodio venne rinviata a giudizio dal gup Pierfrancesco De Angelis: il processo sarebbe dovuto cominciare il 23 novembre prossimo.
«Sono profondamente scosso e non solo professionalmente, scosso umanamente come di rado mi è capitato». Così anche Valerio Spigarelli, l’altro legale di Diana Blefari Melazzi: «Non voglio fare dichiarazioni ad effetto – ha detto mentre sta andando nel carcere di Rebibbia -, chi mi conosce sa che non amo fare dichiarazioni e men che meno in queste circostanze. La storia giudiziaria di Diana Blefari Melazzi la conoscete tutti: in più occasioni abbiamo presentato istanze chiedendo la sua incapacità di stare in giudizio. E sapete tutti questa vicenda come è andata a finire».
IL GARANTE DEI DETENUTI – «Il sistema carcerario italiano ha dato, ancora una volta, l’ennesima dimostrazione di inumanità e inefficienza non riuscendo a cogliere i segnali di allarme di una situazione da tempo gravissima». Lo ha detto il Garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni commentando il suicidio della brigatista. Il Garante ha ricordato che due anni fa, nel novembre del 2007, aveva già denunciato pubblicamente il caso della Belfari Melazzi soggetto schizofrenico e inabile psichicamente, figlia di madre con la stessa malattia e morta suicida ristretta in regime di 41 bis. «I precedenti familiari della donna – ha spiegato – le sue condizioni psichiche in tutto il periodo di detenzione, il suo comportamento quotidiano, la sua solitudine, il suo rifiuto del cibo, delle medicine e di ogni contatto umano contribuivano a tratteggiare un quadro complessivo che doveva necessariamente far scattare un campanello d’allarme che, evidentemente, non si è attivato in tempo». «Evidentemente – ha concluso Marroni – il fatto che dopo gli allarmi sia stato declassato il regime dal 41 bis a detenuta comune non ha comunque aiutato questa donna che ha continuato a tenere un atteggiamento di totale chiusura verso tutto e verso tutti. A quanto sembra, nei giorni scorsi era stata fatta tornare da Sollicciano per sentirsi confermare la sentenza. Io credo che, fermo restando le sue responsabilità, questa donna dovesse essere curata e assistita lontano dal carcere».
carlo mi fai una cortesia? guarda il mio blog in genere e guarda un po’ i miei articoli e le fonti… ho saputo che si puo’ copiare solo il 20% degli articoli è vero?