L’inchiesta. Che cosa non va nelle corsie italiane. I ginecologi in cima alla classifica dei medici denunciati
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Un bollettino di guerra. Il parto che si trasforma da uno dei momenti più belli della vita di una famiglia nel peggiore dei drammi. È quanto emerge dalle cronache degli ultimi 15 giorni. Messina, Roma, Policoro (Matera), Piove di Sacco (Padova). Ogni caso ha la sua storia, ma la conclusione è sempre la stessa: madri che muoiono, neonati che (spesso) non sopravvivono. Quell’Italia che la rivista Lancet dello scorso aprile considerava il posto più sicuro al mondo dove partorire è lontana anni luce. Il primato che limita i decessi materni a 3,9 casi ogni 100 mila nascite – il tasso più basso a livello internazionale – non fa più gioire. Sotto i riflettori adesso c’è un altro Paese. Ci sono i ginecologi pronti a praticare tagli cesarei magari senza reali necessità cliniche e non più abituati a fare partorire le donne senza impugnare il bisturi. Bambini che non vengono neppure al mondo (o rischiano la vita) per essere finiti in ospedali troppo piccoli per considerarsi sicuri. Medici a pagamento che si scontrano (fino ad arrivare alle mani) con colleghi ospedalieri. Così uno degli eventi più naturali al mondo – il parto – diventa un’emergenza che i medici stessi non riescono più a fronteggiare.
Nelle ultime due settimane sono tragicamente emersi in un solo colpo tutti i problemi denunciati da mesi da esperti come Giorgio Vittori che guida la Società italiana di ginecologia e ostetricia (Sigo). Allarmi spesso rimasti inascoltati. In Italia il tasso di tagli cesarei raggiunge il 40% contro il 15% raccomandato dall’Organizzazione mondiale della Sanità (Oms): un record in negativo che – secondo l’United Kingdom Confidential Enquiry – comporta un pericolo di morte materna 2,84 volte superiore. Non solo. Duecentomila parti – ossia uno su tre – avvengono nei 364 ospedali con meno di mille nascite l’anno (un numero garantito, del resto, solo in 190 centri sui 554 totali). E 54.142 bambini (il 10%) vengono alla luce addirittura in strutture con meno di 500 parti l’anno. «Non voglio mettere sotto accusa nessuno – dice Giorgio Vittori -. Ma meno donne partoriscono, meno esperienza hanno ginecologi e ostetriche. Dove ci sono troppo pochi parti, i rischi per mamma e bambino aumentano».
Le due criticità vanno di pari passo: le Regioni dove vengono riscontrate più nascite con il bisturi spesso sono le stesse nelle quali i parti vengono effettuati in ospedali piccoli. La Sicilia – appena finita sotto accusa per la lite tra due ginecologi che ha fatto rischiare la vita a mamma e figlio – vede i cesarei al 52%, mentre il 55% dei neonati viene al mondo in strutture ospedaliere al di sotto dei mille parti. Nel Lazio – sempre nell’occhio del ciclone in questa drammatica fine estate, per la morte del piccolo Jacopo due giorni dopo il cesareo – partorisce in sala operatoria il 41% delle donne e il 36% lo fa in ospedali considerati sotto-dimensionati. E gli esempi possono continuare.
Spiega Walter Ricciardi, direttore dell’Istituto di Igiene della Cattolica di Roma ed esperto dell’Osservatorio nazionale sulla salute della Donna (Onda): «Il motivo dell’elevato ricorso al bisturi è da ricercarsi nella disorganizzazione delle strutture, soprattutto al Sud. Ma non solo. Anche al Centro e al Nord troppe donne optano per il cesareo perché nessuno propone loro una vera alternativa (il parto indolore con l’epidurale, d’altronde, è garantito gratuitamente solo nel 16% dei casi, ndr). I problemi che ne conseguono sono all’ordine del giorno».
I ginecologi non più allenati ai parti fisiologici rischiano di trovarsi impreparati soprattutto davanti alle emergenze. «Non sono più pronti», sintetizza Ricciardi.
I dati (tabella: cliniche sicure e mappa: mortalità neonatale) e riportati alla fine dell’articolo sono estrapolati da statistiche ufficiali: quelle dell’Osservatorio nazionale sulla salute nelle Regioni italiane (nato per iniziativa dell’Istituto di Igiene della Cattolica) e quelle dei Certificati di assistenza al parto divulgati dal ministero della Salute all’inizio d’agosto. Dalle tabelle emerge anche il numero che, forse, sorprende di più: in un anno 1.468 bambini sono nati morti. Sono quasi 3 bimbi ogni mille neonati. Ma nel 70% dei casi – per ammissione del ministero della Salute stesso – il perché rimane un mistero. Un errore medico? Un parto naturale portato avanti male? Un cesareo rimandato troppo a lungo? Impossibile saperlo al momento. Per intanto il ministro Ferruccio Fazio cerca di fare chiarezza sugli ultimi episodi. Di qui l’invio degli ispettori ministeriali per verificare eventuali comportamenti scorretti da Messina a Padova.
Nell’ultimo anno i parti diventati casi nazionali per (presunta) malasanità sono 19. Una goccia nel mare delle denunce contro i ginecologi e gli ostetrici, in cima alla classifica dei medici portati in Tribunale dai pazienti, con il 10% delle richieste di danni complessive. Lo dicono i dati della Regione Lombardia che negli ultimi 10 anni conta quasi 1.700 domande di risarcimento e 60 milioni di euro liquidati. Osserva Gabriella Pravettoni, alla guida del Centro di ricerca sui processi decisionali dell’Università Statale di Milano e autrice del manuale Medical decision making: «Uno dei punti critici in ostetricia è il trasferimento tempestivo delle informazioni sui casi clinici in entrata. Ciò solleva la necessità, più che mai urgente, che all’interno delle unità operative sia creato un sistema di comunicazione tra i medici, che permetta di capire quel che è necessario per la singola paziente».
Vittori e Ricciardi assicurano: «Per ora partorire in Italia è ancora, nonostante tutto, sicuro. Ma non bisogna perdere tempo. E aggiustare in fretta le crepe e i malfunzionamenti che rischiano di fare precipitare la situazione». La catena di morti da parto dev’essere fermata subito.
Cliniche sicure
Simona Ravizza