Intervista a «il giornale»: «Resta l’idea di abolire il valore legale del titolo di studio». Il ministro dell’Università e dell’Istruzione: «Riduciamo a un anno anche il tirocinio della pratica a giurisprudenza»
Roma – Ministro Gelmini, la riforma dell’università è entrata nella fase operativa. Oltre alla riduzione del numero dei corsi di laurea pensate anche di accorciare i tempi per arrivare al diploma?
«Abbiamo aperto un tavolo con il ministro della Salute, Feruccio Fazio, proprio allo scopo di valutare una abbreviazione degli anni di studio per la facoltà di Medicina. Ora sono sei anni per la laurea, poi quattro o cinque di specializzazione e poi ancora il dottorato: non si finisce mai. L’obbiettivo sarebbe quello di accorciare almeno di un anno».
Novità anche per altre facoltà?
«Per Giurisprudenza. Anche in questo caso troppi anni prima dell’accesso alla professione. Stiamo valutando la possibilità di anticipare il tirocinio all’ultimo anno prima della laurea in modo che dopo il diploma occorra soltanto un anno di pratica».
Nel programma elettorale del 2008 il Pdl aveva preso l’impegno di abolire il valore legale del titolo di studio. La riforma è operativa. Ma quell’impegno è stato accantonato?
«Assolutamente no. Anzi. É stato ribadito anche nel piano per l’occupabilità giovanile elaborato con il ministro del Lavoro, Sacconi, insieme con le altre misure per contrastare la disoccupazione dei giovani come il rilancio dell’istruzione tecnico-professionale e dei contratti d’apprendistato».
Luigi Einaudi più di 60 anni fa diceva: «quei pezzi di carta che si chiamano diplomi di laurea valgono meno della carta su cui sono scritti». Eppure siamo ancora qui a discuterne. Ministro lei pensa di raggiungere questo obiettivo?
«Sì. E se non bastassero le parole di Einaudi a superare le resistenze, ricordo i dati sulla dispersione scolastica e la disoccupazione giovanile che sono diretta conseguenza della burocratizzazione degli studi e della perdita di valore di quel famoso pezzo di carta che non basta più. Il primo passo verso l’abolizione, infatti, è già stato compiuto».
Quale?
«Prima dell’abolizione occorreva compiere un passaggio intermedio che infatti abbiamo inserito nella riforma universitaria: la procedura dell’accreditamento per tutti gli Atenei. Una verifica seria e approfondita sulla qualità del sistema universitario. Altrimenti si poteva davvero correre il rischio reale che all’abolizione del valore legale del diploma corrispondesse un abbassamento della qualità mentre noi, ovviamente,puntiamo all’esatto contrario. Il nostro obbiettivo è l’innalzamento degli standard qualitativi visto che già adesso abbiamo luci e ombre. Non tutti gli atenei raggiungono gli stessi risultati».
A chi è affidata la procedura di accreditamento?
«Alla nuova agenzia di valutazione, l’Anvur, che si è insediata nel gennaio scorso. Ma complessivamente tutta la riforma va in questa direzione. Abbiamo detto basta agli approcci quantitativi. Il numero dei corsi è stato ridotto del 25 per cento e i curricula, i settori scientifico- disciplinari, del 40 per cento. Era un enorme spreco di denaro pubblico che oltretutto non portava ad alcun risultato».
Che cosa altro si può fare per evitare che l’abolizione del valore legale dei diplomi inneschi una deregulation verso il basso?
«Abbiamo imposto alle università di fare ordine nei conti.
Sfido chiunque a capire qualcosa negli incomprensibili bilanci degli atenei che invece da ora in poi dovranno essere trasparenti e leggibili da tutti su Internet. La contabilità in ordine è un altro passaggio indispensabile. E gli atenei in rosso saranno commissariati anche se si tratta di una extrema ratio alla quale speriamo di non dover ricorrere. Vigileremo anche sulla stesura degli statuti. Alcune università si sono rivolte a prestigiosi studi legali nel tentativo di aggirare le novità introdotte ma noi pretenderemo che gli statuti siano coerenti con la riforma e che sia presente in tutti un ampio contributo da parte degli studenti».
L’abolizione del valore legale del titolo di studio imporrebbe radicali cambiamenti nel sistema dei concorsi pubblici ma potrebbe avere anche altre conseguenze indirette e rappresentare una spinta verso l’abolizione degli ordini professionali.
«Sono assolutamente favorevole auna riforma liberale delle professioni ma questa è materia di competenza del ministero della Giustizia. Si possono abolire gli ordini, sarebbe un passo positivo ma lascio la questione al ministro Alfano».
Chi ha opposto maggiore resistenza ai cambiamenti imposti dalla riforma universitaria?
«Ma si tratta di una resistenza generazionale di chi oggi ha 60 o 70 anni e gestisce un sistema di potere fatto di lobby e baronie al quale la riforma pone fine. Spero che si inneschi un meccanismo virtuoso perché se riusciamo a innalzare la qualità i giovani non avranno più bisogno di andare all’estero ma potranno fare ricerca e dare un contributo nel loro paese».
Francesca Angeli
Fonte: IL GIORNALE
Quanto costa l’università: ecco la mappa delle tasse
La Bicocca di Milano e la Sapienza di Roma fra le più “salate”. In coda alla classifica Bari e Bologna
Le tasse universitarie, che in Italia hanno cominciato a lievitare una ventina d’anni fa, sono ormai una voce rilevante della spesa delle famiglie con figli che inseguono il cosiddetto pezzo di carta.
Ma le differenze da ateneo ad ateneo da città a città, e anche da facoltà a facoltà, sono veramente abissali. Secondo un recente indagine di Federconsumatori, seguire studi umanistici al Sud costa molto meno che cercare di diventare chirurgo a Milano. Ingegneria alla Federico II di Napoli costa al massimo 1.432 euro all’anno, Medicina alla Bicocca di Milano più di 3.000. A Parma la fascia di reddito più bassa paga 740 euro per l’iscrizione a una facoltà umanistica e 865 per una scientifica: in media il 71% in più rispetto alla media nazionale della prima fascia.Passando a un’altra voce di spesa, si vede che per i testi la spesa media nelle facoltà umanistiche è di 454 euro all’anno, il 17% in più rispetto alle facoltà scientifiche. Ma le tasse universitarie, ormai, sono anche da una parte una posta irrinunciabile dei bilanci dei singoli atenei e dall’altra uno dei pochi dati controllabili di quella specie di equazione che con il risultato finale dovrebbe dare una formazione universitaria di buona qualità a costi sostenibili. Infatti. Una questione che ogni tanto torna d’attualità nel dibattito pubblico, non solo in Italia, è la seguente: non è giusto che tutta la collettività paghi per una «macchina», l’istruzione universitaria, che viene usata quasi esclusivamente alle classi più abbienti. A chi manifesta questo dubbio si replica: ma se si alzano le tasse universitarie la platea degli utilizzatori della «macchina» si restringe ulteriormente. E la questione resta aperta, insieme con quelle che attengono i parametri di valutazione dell’efficienza del sistema universitario,della qualità dell’insegnamento,del finanziamento del diritto alla studio eccetera eccetera. Purtroppo non c’è alcuna relazione diretta fra tasse universitarie alte e alta qualità della preparazione media degli studenti. Università private a parte, nei primi posti delle classifiche mondiali si trovano facoltà e istituti dei Paesi più diversi – dalla Cina agli Stati Uniti e il Giappone passando per Svizzera, Germania e Regno Unito che hanno università pubbliche finanziate dal fisco nelle proporzioni più disparate. Per quanto riguarda le università italiane una cosa è certa. Che siano pubbliche o private e che facciano pagare tasse alte o basse, sono comunque fuori, ormai da decenni, dal top mondiale dell’eccellenza.
Vincenzo Pricolo