Il duello. «La mia voce da Livorno era quella di tutti i marinai»
LIVORNO – «Sa qual è la cosa davvero preoccupante?», sospira la signora Raffaella, la moglie del capitano di fregata Gregorio De Falco, 46 anni, napoletano del Vomero, il capitano simbolo della Marina italiana coraggiosa, onesta, pronta al sacrificio, di tutt’altra pasta rispetto al brutto esempio, «indegno» aggiunge lei, dato dal comandante della Costa Concordia, Francesco Schettino, un uomo in avaria.
La seconda telefonata tra il comandante e il capitano
«La cosa preoccupante — dice la signora De Falco nella sua bella casa di Livorno, in piazza della Sanità, vicino alle sue figlie piccole Maria Rosaria e Carla—è che persone come mio marito, persone che fanno semplicemente il proprio dovere ogni giorno, diventino subito in questo Paese idoli, personaggi, eroi. Non è per niente normale…». Il capitano De Falco, il capo della sala operativa della Capitaneria di porto di Livorno, è quello che nel cuore della notte, mentre la Costa incagliata sugli scogli s’inclinava sempre più paurosamente verso il mare del Giglio, intimò al comandante Schettino di tornare a bordo a fare il suo ineludibile dovere di salvare la vita ai passeggeri: «Vada a bordo, cazzo!», la sua voce ferma, indignata, appassionata, ieri è risuonata in tutte le case.
Ma il capitano oggi non ci sta per niente a passare da eroe, «lui non ama affatto i riflettori anche se domani (stasera, ndr) dovrebbe andare a Porta a Porta», confessa Raffaella. La notte però non riesce più a dormire e piange e non si dà pace per tutti quei morti: «Se ripenso ai passeggeri che hanno perso la vita sulla Concordia, dico che è stata una sconfitta, perché alla fine non siamo riusciti a salvarli tutti. Salvare la gente è la nostra missione», così si sfoga l’alto ufficiale. In queste ore l’amico con cui più si confida è sicuramente il capitano Francesco Paolillo, anche lui in sala operativa a Livorno nella notte della tragedia. Ieri, dalla Procura di Grosseto, dove De Falco indaga fianco a fianco ai pm sulle cause del disastro, il capitano ha chiamato al cellulare proprio lui, Paolillo: «Francesco, hai saputo?, ci sono altri cinque morti nella nave. Ma ti rendi conto, quel comandante, che cosa ha fatto?». Abbandonare la nave, «uscire fuori dal bordo», per Gregorio De Falco è «più che disertare», è «tradire il codice », «andare oltre la legge». «Perché per uno come me — spiega — laureato in Giurisprudenza a Milano e con l’Accademia di Livorno alle spalle, la giustizia è tutto, sta nel mio Dna».
Nei giorni scorsi, prima ancora che uscisse la registrazione audio di quella drammatica telefonata dell’1.46 («Comandante risalga sulla nave… Ora comando io… Cosa vuol fare? Vuole andare a casa?») il capitano De Falco aveva spiegato subito che era stato «il tono» di Schettino a non convincerlo, anzi a fargli capire che «mentiva». Se a bordo c’era stato solo «un guasto tecnico», allora perché far indossare i giubbotti salvagente alle persone? «Un comandante serio non fa preoccupare inutilmente i passeggeri», è la sua tesi di fondo, anche se i comandanti di navi, per una sorta di orgoglio ipertrofico, tendono sempre a minimizzare le difficoltà e a volte possono apparire misteriosi. Ma c’è un altro dettaglio, per nulla trascurabile, che pesa parecchio sul cuore del capitano. Il comandante Francesco Schettino, è originario di Meta di Sorrento. De Falco invece è di Napoli, cresciuto a Ischia. Campani tutti e due. «E questa per noi è stata l’offesa più dura—confessa la signora Raffaella, sposata nel ’97, pure lei napoletana del Vomero —. Perché tra i marittimi campani ci sono tanti De Falco di cui non parla nessuno, tanti bravi marinai che non si comportano come il comandante Schettino e non meritano adesso la stessa etichetta».
De Falco è alto, magro, elegante. Va pazzo per Internet e per la moglie «somiglia a Steve Jobs». «Tutto cuore e fermezza», dicono i suoi amici. Dopo l’Accademia girò tantissimo, di porto in porto, ma così è fatta la vita degli ufficiali e poi a lui non dispiace: quando non sta sul mare, inforca la moto e corre sull’Aurelia oppure parte in camper con la sua famiglia («Eccetto me tutte donne, non per niente sono nato l’8 marzo…») e attraversa l’Italia e l’Europa senza fatica. Una carriera brillante. Cominciò da ufficiale a Mazara del Vallo nel ’94, poi Genova, Santa Margherita Ligure, dove dal 2003 al 2005 comandò l’intera Capitaneria. E infine la nomina a capo della sala operativa di Livorno, dove vive e lavora oggi. Il futuro? «Non avrò pace finché non sarà resa giustizia a quei morti — promette il capitano —. Adesso sono sfinito, esausto, dopo tanti giorni e notti di lavoro, ma continuerò ad indagare finché non sarà chiaro com’è andata. E ora che la telefonata al comandante Schettino l’hanno sentita in molti, beh voglio dire che quella non era soltanto la mia voce. Era la voce di tutti i marinai, la voce del mare che pretende rispetto e non tollera errori».