ENTI LOCALI| LA SENTENZA DELLA CORTE COSTITUZIONALE. Cancellata la norma sui servizi pubblici locali: ignorava il referendum sull’acqua. I movimenti: «restituita voce a cittadini»
ROMA – Scacco matto alle privatizzazioni dei servizi pubblici locali. La Corte Costituzionale ieri, accogliendo il ricorso di sei Regioni, ha cancellato in un sol colpo tutta la normativa, varata dal governo Berlusconi, che apriva il mercato dei servizi pubblici (tranne quello dell’acqua) alla concorrenza imponendone in qualche modo la privatizzazione.
Secondo la Consulta, il difetto di queste regole, che erano contenute nella Finanziaria-bis del 2011, sta nel fatto che esse riproducono la medesima ratio di quelle che il referendum del giugno 2011 aveva cancellato, note con il nome di «legge Ronchi» e risalenti al 2009. La violazione dell’articolo 75 della Costituzione, che vieta di riproporre norme cassate dalla volontà popolare, riporta ora indietro l’orologio normativo di circa 15 anni, a prima della legge Ronchi. Esultano le Regioni, a partire dalla Puglia di Nichi Vendola, prima firmataria del ricorso.
Per capire cosa è successo bisogna premettere che la normativa comunitaria consente agli enti locali di gestire direttamente i servizi pubblici ponendo come unica condizione che il capitale della società cui li affida (società in house ) sia totalmente pubblico. Ora, la norma cassata, secondo la Consulta e in particolare Giuseppe Tesauro (ex Garante Antitrust), estensore della sentenza, andava oltre quelle europee, rendendo «ancora più remota l’ipotesi dell’affidamento diretto dei servizi». Come? In due modi. Primo: subordinava l’affidamento in house alla dimostrazione che, «in base ad una analisi di mercato», la libera iniziativa economica privata non garantisse «un servizio rispondente ai bisogni della comunità». Secondo: stabiliva una soglia, pari a 900 mila euro, al di sopra della quale automaticamente era esclusa la possibilità di affidamenti diretti. Una soglia che l’ultimo decreto Liberalizzazioni aveva ulteriormente abbassato, a 200 mila euro.
La legge siffatta, come si è detto, riprendeva in toto lo spirito di quella cassata dal referendum, avendo cura di escludere dal suo raggio di azione quei servizi idrici che erano stati la miccia che aveva innescato la campagna referendaria. Tale accortezza non è bastata a salvare la norma.
«Bene – ironizza la deputata Linda Lanzillotta (gruppo misto), da anni impegnata a favore dell’apertura del mercato dei servizi – tutto l’impianto delle privatizzazioni e delle liberalizzazioni è demolito. La Corte dimostra il suo orientamento poco favorevole al mercato. Ora bisognerà vedere cosa resta del decreto del governo Monti che era intervenuto sul tema».
Sul punto interviene il sottosegretario allo Sviluppo economico, Claudio De Vincenti, secondo cui la sentenza «non riguarda le norme sui servizi pubblici locali varate dall’attuale governo con il disegno di legge Liberalizzazioni, che sono in linea con il risultato referendario e considerano la gestione cosiddetta in house legittima al pari della concessione a terzi e della società mista».
Ma cosa succederà adesso? «Non c’è più la norma che imponeva la privatizzazione – spiega Giancarlo Cremonesi, presidente di Confservizi – starà alla decisione delle singole amministrazioni e dei singoli soci decidere il da farsi».
Ne sa qualcosa il sindaco di Roma, Gianni Alemanno, che ieri si è affrettato a spiegare che «la sentenza della Corte Costituzionale libera gli enti locali da vincoli rigidi nei processi di privatizzazione e liberalizzazione dei servizi pubblici locali ma non rende affatto illegittima la nostra delibera sulla costituzione della holding e la vendita del 21% di Acea».
Vendola, rivendica a sé il risultato: «La Puglia ha vinto, ma soprattutto, con la Puglia, hanno vinto la democrazia e il popolo del referendum». Per il Governatore sarebbero «a rischio anche le norme del decreto sulla spending review che mirano a fissare gli stessi limiti, abrogati dalla Consulta, sulle società in house ».
Festeggiano il «Forum italiano dei movimenti per l’acqua» e Legambiente, promotori del referendum. E il leader dell’Idv, Antonio Di Pietro, «vigilerà, fuori e dentro il Parlamento, affinché il responso dei cittadini e la sentenza della Corte costituzionale vengano rispettate».