Londra 2012 bye bye. A Giochi appena archiviati, ripensiamo a 17 giorni di emozioni attese e inattese. Protagonisti, anti-eroi, storie che non dimenticheremo. Ecco una carrellata di nomi illustrissimi, sconosciuti e che saranno famosi. E ci si vede a Rio.
Cosa resterà di questa Londra? Chi è stato il simbolo dei Giochi? Quale il Personaggio indimenticabile? O il record, la squadra, il campione? Tralasciando l’Italia dei miracoli (27 medaglie a Pechino, 28 qua ma senza il contributo-Pellegrini: sotto il servizio dedicato), ce n’è in abbondanza e come sempre di materiale da riflessione, per tessere la tela sottile del ricordo.
Alla prima domanda la risposta suona complicata, ma possibile. C’è stata la Regina con James Bond, paracadutata sullo stadio il 27 luglio assieme a 007 da un elicottero. C’è stata la prima volta della boxe donne, a restituire (moralmente almeno) gli sganassoni che troppe signore indifese subiscono nei tinelli del mondo da coniugi vigliacchi. C’è stata la comparsa delle atlete islamiche, in pista o sul tatami con il velo o con cuffione salva–ortodossia religiosa. C’è stato, anzi: a dire il vero non c’è stato, il doping. Nessuno ha vinto barando, quelli come Schwazer li hanno fermati prima (con l’eccezione, una c’è sempre, della bielorussa Ostapchuk nel peso, nella foto sotto). C’è stato twitter, e gli atleti cacciati per razzismo ignorante via social network. Il calciatore del Palermo (nella scorsa stagione al Novara) con la cresta da mohicano dopo il ko per 2-1 con la Corea del Sud si è sfogato malamente su Twitter, scrivendo in verlan, una particolare forma di linguaggio gergale francese. Morganella, fischiato durante il match per aver simulato un fallo, ha twittato: “Je fonsde out les coreen allez sout vous lebru ahahahahahah deban zotre” cioè “Voglio dare fuoco a tutti i coreani, bruciate tutti mongoloidi”. Inutili le scuse (“Mi spiace per quello che ho appena scritto, ero preso dalle emozioni. E mi scuso per il mio comportamento”).
Alla seconda domanda la risposta si fa ancora più complessa. Il simbolo: la prima volta di un atleta amputato in una finale (Pistorius nella 4×400)? Oppure un profugo dal finimondo somalo che vince due ori e dice “questo è il mio Paese” mentre bacia in mondovisione la moglie col pancione, in attesa (Mo Farah, orgoglioso oro inglese adottivo nei 5 e 10mila)? O Bolt, l’uomo-saetta con tre pepite al collo (100, 200, staffetta 4×100) e un record del mondo collettivo, perché ora fa proseliti tra i connazionali e si sta coltivando già l’erede al trono? O Phelps, mai nessuno come lui, 22 ori in una carriera olimpica da re delle piscine, il Kid che adesso confessa di odiare perfino l’idea di fare due bracciate al mare? O Felix Sanchez, laurea in California, il dominicano che estrae dalla canotta e bacia la foto della nonna scomparsa dopo la vittoria nei 400 hs, a 35 anni suonati, otto anni dopo l’oro di Atene? O magari la cinesina Wu Minxia, che solo dopo l’ennesimo oro nei tuffi sa che i suoi nonni non ci sono più e la sua mamma è malata di cancro?
Alla terza (e quarta) domanda va subito gorgheggiato un nome masai, David Lekuta Rudisha, giovanotto del Kenya che frantuma in mille pezzi il primato del mondo degli 800. Ma poi come trascurare arcieri, tiratori, kayakisti-canoiste, schermidori e tenaci pugili sudisti italiani, gente che fatica nel silenzio stampa e lontano dai lustrini tv? O piuttosto un’isola, Grenada, che vince nel rapporto Pil-medagliere grazie a Kirani James, baby trionfatore nei 400, passaporto di un fazzoletto caraibico da 150mila abitanti e 859 milioni di dollari di ricchezza annua? O la stretta di mano storica tra le due Coree, Nord e Sud, nel ping pong?
E infine ci sono i giovani (16, 17, 18enni). Atleti, campioni minorenni , o poco più che maggiorenni, dal tuffatore british Tom Daley alla paffutella nuotatrice lituana Ruta Meilutyte con quel cognome da antibiotico, alla collega record-woman yankee Missy Franklyn, alla nostra cecchina Jessica “James” Russo. Gioventù poco snob, piccoli marziani seri, ex bambini che entrano nella vita adulta col peso di una magnifica responsabilità precoce. Come ne esce, dalla vita solo agonistica beninteso, il Fabrizio Donato che acchiappa il bronzo nel triplo a 36 anni e mostra la t-shirt che la sua bambina Greta gli ha preparato, prima di partire, per i Giochi (”Papi sei un campione”). Questo è stata Londra, e questo dunque resterà. Tutto questo. Questo il Senso di un’Olimpiade. Forza, coraggio, progresso, impegno, tante storie. Long life to the Games, allora: lunga vita al Sacro Fuoco.
PAOLO PAGANI