IL CASO DEL SIDERURGICO TARANTINO Badge disabilitati, sit in lavoratori. A Genova 1.500 scendono in piazza: circolazione in tilt. I timori delle conseguenze sull’intero settore. Il blocco totale delle attività dell’Ilva di Taranto apre scenari che non è esagerato definire drammatici.
TARANTO – Monta la tensione a Taranto dopo la decisione dell’azienda di chiudere gli stabilimenti e lasciare a casa cinquemila dipendenti. Questo in risposta all’attività della magistratura che ieri ha disposto sette arresti sequestrando i prodotti finiti e semilavorati. Gli uffici della direzione sono stati occupati da alcune centinaia di operai questa mattina dopo la proclamazione dello sciopero. Decisa, invece, è la risposta del governo che ha annunciato un incontro sul caso Ilva. «Quello di giovedì – ha detto Corrado Clini, ministro dell’Ambiente – non sarà un incontro interlocutorio. Contiamo di uscire con un provvedimento, lavoriamo a un decreto per l’applicazione dell’Aia. Stiamo lavorando con Monti e i ministri ad una soluzione per l’applicazione dell’Aia, unica strada per il risanamento». Clini ha aggiunto che «le normative nazionali ed europee stabiliscono che per l’esercizio di questo tipo di impianti è necessaria l’Aia che è l’unico documento legale che ne regola l’attività. Il problema, oggi, è creare le condizioni di agibilità per cui l’azienda possa rispettarla rigorosamente. Siamo di fronte ad una situazione paradossale: c’è un rischio di convergenza di interessi per cui fra l’iniziativa della magistratura e l’interesse dell’azienda a non investire, avremmo il risultato pratico di un’area inquinata pericolosa e la perdita di lavoro per migliaia di persone. Questa convergenza negativa va spezzata» ha concluso Clini. «Il governo – ha aggiunto Renato Balduzzi, ministro della Salute – ha sempre detto che ambiente, salute e sviluppo devono stare insieme e questo è l’impegno di tutti. Siamo di fronte ad una situazione assolutamente nuova, per certi versi inedita, e cercheremo di dare come governo il nostro apporto».
LA SITUAZIONE IN AZIENDA – Gli operai dell’Ilva, dopo aver organizzato un corteo interno al quale hanno partecipato sia quelli impiegati nell’area a caldo sia quelli dell’area a freddo, hanno occupato di fatto tutta la palazzina che ospita la direzione dello stabilimento e ora stanno decidendo come proseguire la protesta. «Non hanno voluto trovare una soluzione, governo e azienda continuano ad usarci – dicono alcuni di loro – e a rimetterci siamo soltanto noi e questa città. Così non può continuare.» Negli uffici della direzione sono entrati anche alcuni componenti del movimento dei Liberi Pensanti. Al momento gli operai non sembrerebbero intenzionati a mettere in atto blocchi stradali, anche se attendono l’esito dell’incontro con i vertici dell’azienda. «Cosa accadrà? Non lo sa nessuno – dicono – qui si naviga a vista». Alle 7 è iniziato lo sciopero proclamato da Fim, Fiom e Uilm. La mobilitazione durerà almeno 24 ore. Dinanzi alle portinerie sono in atto sit-in di lavoratori, mentre qualche momento di tensione si è registrato tra chi voleva entrare e chi invece invitava a scioperare. Ieri l’azienda ha anche comunicato la chiusura dell’area a freddo, facendo rimanere a casa i lavoratori di quell’area. Domani si terrà il consiglio di amministrazione dell’Ilva ed è confermato, sempre per domani, l’incontro tra azienda e sindacati, già programmato per discutere della cassa integrazione annunciata per 1.942 dipendenti, prima della nuova bufera giudiziaria.
LA FABBRICA VERSO LA CHIUSURA – Afo 1, 4 e 5 sono fermi da questa notte, mentre l’Afo 2 è in attività. Poiché il personale non è al lavoro le acciaierie sono ferme quindi non possono ricevere le colate di ghisa.
I BADGE DISATTIVATI – Alcune centinaia di operai, inoltre, hanno tentato stamane di accedere al loro posto di lavoro, nonostante l’annuncio della fermata dell’area a freddo, ma non è stato loro possibile, giacché i badge per gli ingressi sono disattivati da ieri sera. Gli operai si sono quindi diretti dalla portineria D alla portineria A, dove probabilmente faranno un’assemblea, attendendo le indicazioni dei sindacati che per l’intera giornata di oggi e per tutti i reparti della fabbrica tarantina hanno indetto uno sciopero.
LA PROTESTA A GENOVA – Un gruppo di lavoratori dello stabilimento Ilva di Cornigliano ha bloccato anche la sopraelevata, la principale arteria stradale cittadina, mandando in tilt il traffico in tutta la città. In precedenza il corteo dei lavoratori Ilva di Genova, che da stamani manifestano contro l’ipotesi di chiusura dello stabilimento, aveva bloccato il casello di Genova Ovest. Fermate anche le rampe di accesso dai lavoratori e dai mezzi pesanti in corteo. «Le decisioni dei pm hanno costretto l’Ilva a chiudere da subito gli impianti a freddo dello stabilimento di Taranto – ha chiarito Giovanni Calvini, presidente di Confindustria Genova – fatto che ha determinato la messa in ferie di 5.000 dipendenti, ai quali, per motivi di sicurezza, sono stati disattivati i badge di ingresso. Inevitabilmente – ha sottolineato Calvini – la decisione di bloccare vendita e produzione causerà non solo il fermo dello stabilimento di Genova, ma di innumerevoli altre aziende che senza le forniture dell’Ilva non possono produrre. Dispiace che mentre l’azienda stava cercando di dare attuazione all’Aia chiedendo il dissequestro degli impianti, necessario per poter implementare il piano industriale, la magistratura abbia preso una decisione così drastica». Così circa 1.500 metalmeccanici dello stabilimento Ilva di Genova, dopo una breve assemblea, hanno dato vita al corteo. Con loro anche i cassa integrati dello stabilimento metallurgico. Il corteo, aperto da un caterpillar da 140 quintali e seguito da un grosso camion e da un autospurgo, si è diretto verso il casello di Genova ovest dove confluiscono la A7 e la A10.
IL MINISTRO SEVERINO – «Quello dell’Ilva è un caso estremamente difficile e complesso, bisogna coniugare diritto al lavoro e diritto alla salute» ma in Italia «l’adeguamento alle normative ambientali è assolutamente da fare» ha detto Paola Severino a margine di un convegno. «La magistratura – ha spiegato il ministro – si è assunta la sua parte che è quella di applicare le leggi, e il governo si è assunto i suoi compiti e domani c’è una riunione importante per cercare una soluzione che contemperi i due valori». Parlando più in generale del nostro paese e di altre situazioni simili a quelle dell’Ilva, il ministro ha sottolineato che «nel nostro paese l’attenzione alla tutela ambientale è forte, ma è cresciuta nel tempo. L’adeguamento alle normative necessità di tempo ma è assolutamente da fare».
ROMA – Se chiude l’Ilva di Taranto, scompare l’ultimo grande impianto in Italia per la produzione di acciaio a ciclo integrale, dall’altoforno ai laminati, ai tubi. Per il gruppo Riva, quarto in Europa nella siderurgia, sarebbe un colpo durissimo. Per l’economia italiana un danno a catena, che colpirebbe, innanzitutto gli altri stabilimenti del gruppo (Novi Ligure, Racconigi, Marghera e Patrica), quindi l’indotto (oltre ai 12 mila dipendenti diretti, ce ne sono tra i 5 e i 7 mila che vivono dei servizi che ruotano intorno al megastabilimento, il più grande d’Europa, e i clienti, che vanno dal distretto metalmeccanico di Brescia all’industria degli elettrodomestici, dai cantieri navali al settore dell’auto, dall’edilizia al comparto dell’energia. Tanto che Federacciai-Confindustria ha quantificato in una cifra oscillante tra 5,7 miliardi e 8,2 miliardi di euro le ripercussioni negative sull’economia nazionale. Cioè qualcosa che può valere mezzo punto del prodotto interno lordo.
L’acciaio serve per fare viti, chiodi, bulloni e chiavi, dei quali l’Italia è grande produttrice. Ma anche per costruire navi, altro settore nel quale, nel segmento crociere, primeggiamo nel mondo, piattaforme offshore, caldaie e impianti industriali. Le lamiere d’acciaio danno forma alle lavatrici, alle automobili e ai treni, che oltretutto corrono sui binari. Gasdotti e oleodotti necessitano dei grandi tubi che escono dagli stabilimenti siderurgici. Le costruzioni e le ristrutturazioni vivono sull’acciaio: dai ponteggi esterni sui quali si muovono gli operai ai tondini per il cemento armato alle travi che sorreggono strutture e ponti. Le macchine industriali, altra leadership italiana nel mondo, non si muovono senza alberi di trasmissione e altri componenti in acciaio.
Taranto ha prodotto l’anno scorso circa 8 milioni di tonnellate di nastri e lamiere d’acciaio, ma negli anni che l’economia tirava ne ha sfornati anche 9-10 milioni, pari a più del 40% della produzione nazionale. Degli 8 milioni di tonnellate circa 5 sono andati a rifornire il mercato nazionale, da colossi come Fiat e Fincantieri alle piccole imprese dei distretti metalmeccanici. Tre milioni di tonnellate, invece, sono state esportate, la gran parte, 2,5 milioni, in Europa, dove la Germania è prontissima a prendere il nostro posto, e mezzo milione nel resto del mondo, dove la concorrenza cinese è sempre più agguerrita.
Se l’Italia dovesse importare i 5 milioni di tonnellate di acciaio che ora prende da Taranto, stima Federacciai, l’esborso verso l’estero oscillerebbe tra 2,5 miliardi e 3,5 miliardi, dipende dalle condizioni di prezzo e dalla congiuntura. Stessa cosa vale per le esportazioni, dove si perderebbero tra 1,2 e 2 miliardi di euro. Il danno per la bilancia commerciale andrebbe da un minimo di 3,7 miliardi a un massimo di 5,5 miliardi. A questi si devono aggiungere fra 750 milioni e 1,5 miliardi che gli attuali clienti dell’Ilva dovrebbero sopportare di maggiori costi per la logistica e gli oneri finanziari. Un altro miliardo andrebbe considerato per gli ammortizzatori sociali e 250 milioni per il calo dei consumi conseguente al tracollo dei redditi in tutta l’area di Taranto. Totale, appunto: minimo 5,7 miliardi, massimo 8,2 miliardi.
Secondo Rocco Palombella, segretario della Uilm, che all’Ilva di Taranto fu assunto nel lontano 1973, questi calcoli, oltretutto, non tengono conto del dramma sociale che si aprirebbe, «anche perché l’età media dei dipendenti è intorno ai 35 anni» e quindi non c’è ammortizzatore sociale che possa bastare. Dovrebbero trovare un altro lavoro. «Ma quale in quella zona?», si chiede il sindacalista.