IL DECENNALE DELLA SCOMPARSA DI GIANNI AGNELLI. Il ricordo di Gianluigi Gabetti, il manager al suo fianco: «Resistono il suo europeismo e l’indipendenza del gruppo».
«Crans, Svizzera, fine Anni 80. Penso di approfittare della presenza di André Meyer per far incontrare Giovanni Agnelli con il grande banchiere americano e due importanti finanzieri europei, ospiti nella sua villa. Mi trasferisco là il giorno prima. Nevica tutta la notte, il traffico è bloccato, le linee telefoniche da Sion in su interrotte. All’evidenza, Agnelli non potrà venire. Stiamo guardando il bianco paesaggio attraverso le vetrate, quando notiamo uno sciatore che scende velocemente attraverso il campo di golf davanti alla villa, arriva a pochi metri da noi, si ferma e ci sorride, slacciando la corazzatura allacciata alla gamba destra. Era l’Avvocato. Saputo della nevicata, si era fatto portare in elicottero su un colle vicino a Crans per poi scendere con gli sci. Chiese qualche minuto per mettersi in ordine e alle 10 in punto la riunione ebbe inizio. Del resto teneva molto alla puntualità, capitava spesso di arrivare in orario e trovarlo già lì ad aspettare…».
Dottor Gabetti, cosa resta di Agnelli a dieci anni dalla sua scomparsa?
«Non riesco a pensare alla sua morte come a una scomparsa, perché la sua figura è presente nelle molte vicende da lui originate. Non scomparsa, quindi, e neppure mestizia o malinconia: sono termini incompatibili con il suo modo di vedere la vita come continua alternanza di forti sentimenti e di forti azioni».
A quali vicende si riferisce?
«L’europeismo. Il rapporto con l’America. L’unità della famiglia. L’indipendenza del gruppo Fiat e la sua espansione internazionale».

Alla fine della sua vita, l’Avvocato amava ricordare che l’acronimo Fiat era ancora valido: «Siamo ancora una fabbrica, abbiamo sede in Italia, facciamo automobili, la testa è a Torino». Secondo lei sarà ancora così?
«Guardi che Giovanni Agnelli aveva chiarissima la necessità di aprirsi al mondo. Per decenni la Fiat ha trattato un’alleanza in America. Prima con la Ford. Poi con la General Motors; e si profilava la possibilità di una vendita. Alla fine è stata la Fiat a rilevare la Chrysler. L’America era il suo orizzonte. Ma aveva un forte legame con l’Europa, ereditato dal nonno, che negli anni del fascismo prefigurò in un libro gli Stati Uniti d’Europa. Lui poi aveva conosciuto Schuman, Monnet, Altiero Spinelli, Luigi Einaudi, che oltretutto era piemontese. Era amico di Delors e di Gaston Thorn, suo predecessore alla presidenza della Commissione europea. Vedeva spesso Kohl».
Quando vi siete incontrati per la prima volta?
«Negli anni 60. Allora lavoravo in America per l’Olivetti. Mi mandò a chiamare, mi fece molte domande. A lungo non si fece più vivo. Poi nell’aprile 1970 mi telefonò: “Sono a New York. Lei cosa sta facendo?”. D’istinto gli dissi la verità».
Vale a dire?
«Stavo andando a giocare a tennis con mia moglie. Lui si scusò: “Speravo mi potesse raggiungere”. Rinunciai al tennis».
E le chiese di guidare l’Ifi, la finanziaria di famiglia.
«A dire il vero, come prima cosa mi chiese, visto che ero nel board del Moma, se potevo aiutarlo a visitare il museo nel giorno di chiusura: c’era una mostra dedicata alla collezione di Gertrude Stein che gli interessava. Ci riuscii, e lui ne fu molto felice. Volle rivedere anche la collezione permanente. Riconosceva tutti i quadri da lontano: “Quello è Braque, quello Picasso” e così via. E comunque sì, mi chiese di lasciare l’Olivetti per l’Ifi. Avvertii il mio presidente di allora, Visentini».
Come la prese?
«Malissimo. Cossa vol queo lì? (Gabetti si produce in un’imitazione perfetta di Visentini). Partì subito per gli Stati Uniti. Dovetti dirgli che avevo deciso di accettare. Lo riaccompagnai all’aeroporto in un silenzio tombale. Poi telefonai ad Agnelli».
Lei non lo chiamava Avvocato, vero?
«No. In presenza di altri, lo chiamavo presidente. E ci siamo sempre dati del lei. Stavo attento a non avvicinarmi troppo a lui, e glielo dissi. Il rischio era restare schiacciati dalla sua personalità: avrei perso il mio punto di vista, e non avrei più potuto essergli utile».
Com’erano i vostri rapporti?
«Mi telefonava tutti i giorni, sempre alle 6 e 40: “Gabetti, cosa c’è di nuovo?”. In realtà, lui ne sapeva molto più di me: aveva già letto i giornali – li mandava a prendere alle 5 del mattino alla stazione di Porta Nuova – e telefonato in America a Kissinger, che non amava ricevere chiamate la sera, ma per Agnelli faceva eccezione. Ogni tanto mi invitava a pranzo a Villa Frescot. Pranzi simbolici: un piccolo risotto, un trancio di pesce, un bicchiere di vino francese. Solo alla fine sono riuscito a fargli scoprire i vini piemontesi: prima Gaja, poi Ceretto e Bartolo Mascarello con la complicità del suo fidatissimo Bruno Gasparini».
Il leggendario maggiordomo Brunetto.
«Lui. Si stava a tavola meno di mezzora. Poi Agnelli andava a riposare».
Parlava piemontese?
«Un poco. L’aveva imparato dal nonno, e lo citava volutamente. Di una persona immatura diceva: A l’è ’na masnà, è un bambino. Era profondamente legato a Torino. Si è battuto molto per l’assegnazione delle Olimpiadi invernali: stava già male, si fece caricare a forza di braccia sull’elicottero che doveva portarlo a Sion, dove si teneva la riunione decisiva».
Lei è stato partigiano. Parlavate mai della guerra e della Resistenza?
«Qualche volta sì. In guerra Agnelli aveva fatto più di quel che gli era richiesto. Passò un inverno in Russia. Poi la sua unità fu spostata in Africa. Il carro armato davanti al suo, su cui stava il comandante, il colonnello Lequio, fu falciato da uno Spitfire inglese».
E dopo l’8 settembre?
«Non ebbe dubbi su quale fosse la parte giusta. Del resto non aveva mai avuto simpatia per il fascismo. Certo, a Roma aveva conosciuto Ciano. Ma a Torino il nonno gli aveva messo accanto Massimo Mila e Franco Antonicelli, di cui tutti sapevano che erano antifascisti. Un giorno Antonicelli non venne: era stato arrestato. Dopo l’8 settembre Agnelli passò le linee per unirsi alle formazioni italiane che combattevano con la Quinta Armata. Ebbe un grave incidente, fu assistito dalla sorella Suni, che faceva la crocerossina. Erano giorni di grande incertezza, l’Europa era stata divisa a Yalta ma non si sapeva ancora se l’Italia sarebbe stata nella sfera d’influenza americana o in quella sovietica. Corse voce che Stalin avesse rinunciato perché preferiva non avere direttamente a che fare con il Papa».
È vero che lei era contrario al primo intervento della Fiat nel Corriere?
«Sì. Gli dissi che non la vedevo chiara, che in Rizzoli avremmo trovato molte realtà che non conoscevamo».
E lui?
«Per lui il Corriere era un simbolo. Un giorno mi mandò a chiamare. Mi dissero che stava scendendo, lo aspettai in cortile. Parlammo a lungo. Poi salì in macchina – gli piaceva guidare di persona, usando solo la mano destra – e prima di partire abbassò il finestrino e disse solo: “Ah, alla fine il Corriere l’abbiamo preso”. E filò via».
Com’era il suo rapporto con l’America?
«A dicembre ho rivisto David Rockefeller e Kissinger: entrambi sono convinti che Agnelli sia stato, su scala mondiale, l’italiano più significativo e importante del secolo breve. Capitava che avvertisse all’ultimo momento del suo arrivo a New York, e ogni volta era facile organizzare una colazione alla quale si premuravano di venire, annullando sovente impegni, oltre a Kissinger e a David Rockefeller, suo fratello Nelson, Warren Buffett, André Meyer. Una volta c’era David Paley, presidente della Cbs, un’altra Katherine Graham proprietaria del Washington Post, un’altra ancora il direttore del New York Times. Tutti vedevano in Agnelli la persona che meglio poteva metterli al corrente non solo delle cose italiane, ma anche dei principali Paesi europei e sudamericani. Quanto fu felice quando acquisimmo un pacchetto importante di azioni del Rockefeller Center…».
Come andò?
«David Rockefeller era rimasto molto dispiaciuto che, per una serie di vicende alle quali eravamo rimasti estranei, il Rockefeller Center, simbolo della potenza americana, fosse finito in mano ai giapponesi. Con i colleghi studiai una soluzione che avrebbe consentito di porre rimedio. Ne feci menzione ad Agnelli e lui si elettrizzò a quella idea. Con il concorso di Jerry Speyer, importante esponente del real estate americano e con l’appoggio di Goldman Sachs, riuscimmo nell’impresa. Non posso dimenticare lo scoppio di allegria dell’Avvocato quando poté darne notizia al suo amico David. Intendiamoci: non avrebbe mai fatto, con i soldi dei suoi familiari e degli azionisti terzi, un affare per un amico personale; ma l’idea che un’operazione di quella importanza, che molto giovò anche al prestigio del nostro gruppo, potesse essere condivisa non solo con un grande americano, ma a con un grande amico, lo rese felice. Agnelli non era un sentimentale, ma era capace di forti sentimenti e di forti amicizie».
Lei non sapeva di fondi dell’Avvocato all’estero?
«Non mi sono mai occupato del patrimonio personale dell’Avvocato, in Italia o all’estero. Per quanto riguarda l’Ifi, dal ’71 in avanti preparai con ottimo successo un programma di diversificazione degli investimenti sui mercati internazionali. Ma negli ultimi anni della sua vita l’Avvocato mi disse di liquidare gli investimenti esteri dell’Ifi e delle sue controllate Ifil e Ifint (poi affluite nell’attuale Exor) in modo che i ricavi fossero impiegati per far fronte alle esigenze della Fiat, la cui situazione si era venuta sempre più aggravando. Dopo la sua morte, quelle risorse vennero in effetti utilizzate anzitutto per la ricapitalizzazione a cascata dell’intero gruppo, con sbocco finale sulla Fiat. Dopo la scomparsa di Umberto, attingemmo a quelle stesse risorse per finanziare la nostra operazione di equity swap».
Cioè l’operazione che consentì alla famiglia di mantenere il controllo della Fiat, ma costò a lei e a Grande Stevens un processo.
«Fu un’operazione di difesa da iniziative speculative che avrebbero minato la compattezza del patrimonio del principale gruppo industriale del Paese, facendone uno “spezzatino”».
Iniziative da parte di chi?
«Non l’ho mai saputo con certezza. Nel 2006 la procura di Torino eccepì sul testo della nostra comunicazione alla Consob e iniziò una vicenda giudiziaria che ci ha visti vincenti in primo grado. Ora il processo è in grado di appello».
È vero che Agnelli aveva soggezione di Cuccia?
«Non direi. Ammirava molto la sua cultura, era affascinato dal suo stile monastico e dalle maniere perfette, lo divertiva il suo humour – Cuccia esplodeva talora in risate improvvise -, ma badava a che il rapporto rimanesse sempre in equilibrio. Se Cuccia si addentrava nelle vicende del nostro gruppo al di là di un certo segno, Agnelli non lo assecondava, anche perché lui non si sarebbe mai peritato di occuparsi delle cose di Mediobanca. Avevano in comune la stima per Adolfo Tino e per Ugo La Malfa, l’unico politico che l’Avvocato tenesse davvero in grande considerazione. Le conversazioni tra Agnelli e Cuccia erano uno spettacolo. Davano su vari personaggi giudizi taglienti, anche se mai feroci».
Quali personaggi?
«Mai su dirigenti del nostro gruppo. Più facilmente sui politici».
Quali erano i difetti dell’Avvocato?
«Erano il reciproco delle sue qualità. Era molto rapido, e questo poteva andare a scapito dell’approfondimento. Va detto però che la sua capacità di capire al volo cose e persone era impressionante. Non è vero che soffrisse la noia. Lo facevano soffrire le persone noiose; ma non al punto da farlo diventare scortese».
Com’era il rapporto con il nipote John?
«Il modello era il rapporto che lui a sua volta aveva avuto con il nonno, il Senatore. L’Avvocato puntava su John e sono certo che non ne fu mai deluso. Lo mandò a conoscere Cuccia e Kissinger. Una volta incontrai l’Avvocato a Parigi con John e Lapo: li stava portando a visitare un museo, era molto serio».
E il rapporto con il figlio Edoardo?
«La sua morte fu un colpo durissimo, reso ancora più grave dal dolore di non essere mai riuscito a stabilire un rapporto con lui».
Credeva in Dio? Era religioso?
«Negli ultimi tempi si poneva la questione. Ne parlava in particolare con Bobbio, che vedeva con regolarità. Aveva apprezzato molto “De senectute”, il suo libro sulla vecchiaia; casa Bobbio era diventato il suo confessionale. Aveva avuto un’educazione religiosa, la domenica andammo qualche volta a messa insieme a Villar Perosa. È vero che lui qualche volta stava in piedi; ma in fondo alla chiesa».
Quand’è stata l’ultima volta che l’ha visto?
«Era già molto provato, costretto sulla sedia a rotelle, con le mani rovinate dai segni delle flebo. Era sempre molto composto però. Sino alla fine ha avuto un atteggiamento quasi da soldato: ad esempio non ci stringevamo quasi mai la mano, secondo le migliori tradizioni militari. Al momento di lasciarci, però, mi prese la destra e se la posò sulla guancia. Mi chiese di tenere unita la famiglia. Poi mi fece una sorta di saluto militare, e mi congedò».
ALDO CAZZULLO