Le indagini. Tra i testimoni Cardia, figlio dell’ex presidente Consob: L’accordo per far salire il titolo e nuove speculazioni sospette. Un dirigente, per anni alla guida di una Filiale Estera del Gruppo Montepaschi, che chiede di rimanere anonimo per evitare ritorsioni, ha descritto Alexandria ai magistrati senesi, dando anche prova di tutti i warning inviati ovunque ai vari livelli della banca.
ROMA – Un patto tra acquirente e venditore per truccare i conti e far salire il prezzo di Antonveneta. Un accordo non scritto tra gli spagnoli del Santander e gli italiani di Monte Paschi per dividersi la «plusvalenza» di quell’affare. Gli atti contabili, le comunicazioni interne, le relazioni trasmesse agli organi di vigilanza sequestrate otto mesi fa per ordine della magistratura di Siena e analizzate dagli specialisti della Guardia di Finanza, hanno consentito di trovare indizi concreti su questo intreccio illecito. E di aprire una nuova fase d’indagine che si concentrerà sui testimoni da ascoltare. Personaggi che potrebbero conoscere dettagli inediti di quanto accadde nel 2007 quando Santander acquistò la banca per 6,3 miliardi di euro e appena due mesi dopo riuscì a venderla a Mps per 9,3 miliardi di euro con un’aggiunta di oneri che fecero lievitare la cifra a 10,3 miliardi. Un ulteriore miliardo che potrebbe rappresentare la «stecca» aggiuntiva e coinvolge direttamente Jp Morgan.
L’armadio dei documenti – Nell’elenco c’è anche il banchiere Ettore Gotti Tedeschi, ex presidente dello Ior e da vent’anni responsabile di Santander per l’Italia che ha più volte incontrato l’ex presidente Giuseppe Mussari, come dimostrano le agende sequestrate a quest’ultimo. Lo scorso anno, indagando sui conti dell’Istituto opere religiose, le Fiamme gialle sequestrarono nel suo ufficio un armadio pieno di documenti sulle operazioni condotte da Santander nel nostro Paese. E contenevano i nomi di alcuni consulenti che negli anni hanno affiancato l’istituto spagnolo e potrebbero aver avuto un ruolo importante anche nella vendita di Antonveneta. Tra i nomi spicca quello di Marco Cardia, avvocato che si occupò di alcuni aspetti dell’acquisizione per conto di Mps all’epoca in cui suo padre Lamberto era presidente della Consob. Sono diverse le persone che in questi mesi avrebbero già aiutato gli uomini del Nucleo valutario a ricostruire il percorso dei soldi. Denaro trasferito all’estero e in parte fatto rientrare grazie allo scudo fiscale. Ma ancora molto ne manca all’appello e soprattutto altre speculazioni sono state effettuate negli ultimi mesi. Per questo, come viene confermato dai magistrati senesi, si continua a indagare pure per aggiotaggio. Non escludendo che anche in queste ore ci siano nuove manovre illecite sul titolo. Testimone chiave in questa fase si è dimostrato Nicola Scocca, l’ex direttore finanziario della Fondazione che sarebbe stato interrogato già quattro volte.
Il patto tra le banche – Sono gli ordini di perquisizione notificati il 9 maggio scorso a svelare quale sia il nocciolo dell’inchiesta. E per quale motivo siano finiti nel registro degli indagati l’ex direttore generale Antonio Vigni e gli ex sindaci Tommaso Di Tanno, Leonardo Pizzichi e Pietro Fabretti. Adesso l’indagine si è allargata coinvolgendo Mussari, il presidente della Fondazione Gabriello Mancini, l’ex direttore generale dell’ente Mario Parlangeli e l’attuale, Claudio Pieri. E con un faro acceso sull’attività di Gianluca Baldassarri, direttore dell’Area finanza fino allo scorso anno. Dopo l’esborso di oltre 10 miliardi e l’accollo dei debiti per ulteriori otto miliardi, bisogna ripianare il bilancio. Le ricapitalizzazioni e i prestiti del Tesoro non sono evidentemente sufficienti. E così i titoli Mps in portafoglio alla Fondazione finiscono in pegno a undici istituti di credito, una sorta di cordata guidata da Jp Morgan che coinvolgeva anche Mediobanca. I finanziamenti arrivano attraverso contratti di Total Rate of Return Swap (Tror) e per questo i magistrati chiedono ai finanzieri di sequestrare le «note propedeutiche agli accordi di stand still siglati con la Fondazione, la documentazione relativa alle contrattazioni che hanno determinato il rilascio di garanzie in favore delle banche o del “Term loan” da parte della Fondazione Mps, la loro novazione, documentazione concernente il ribilanciamento del debito contratto dalla Fondazione».
Le manovre speculative – L’esame dei documenti effettuato in questi otto mesi dimostra che per sanare la voragine nei conti aperta con l’acquisto di Antonveneta furono messe in piedi operazioni ad altissimo rischio come i bond fresh del 2008 e quelle sui derivati. Ma non solo. I magistrati sono convinti che il valore delle azioni sia stato gonfiato dai dirigenti di Mps e che queste manovre speculative siano andate avanti anche negli anni successivi, in particolare tra giugno 2011 e gennaio 2012.
Obiettivo: nascondere un disastro finanziario che i vertici del Monte Paschi avevano invece escluso. Non a caso nei decreti di perquisizione del maggio scorso viene evidenziato come «la documentazione acquisita e le informazioni testimoniali fanno emergere l’ostacolo all’attività di vigilanza della banca d’Italia poiché risulta che organi apicali e di controllo di Mps, contrariamente al vero rappresentavano che la complessiva operazione realizzava il pieno e definitivo trasferimento a terzi del rischio d’impresa e che la stessa non contemplava altri contratti oltre quelli già inviati».
Il falso su Jp Morgan – Agli atti c’è una lettera trasmessa il 3 ottobre 2010 dal direttore generale di Mps Vigni a Bankitalia sull’aumento di capitale da un miliardo riservato a Jp Morgan. Dieci giorni prima Palazzo Koch aveva chiesto «delucidazioni circa la computabilità della complessiva operazione di rafforzamento patrimoniale da un miliardo di euro nel core capital ». Vigni risponde che «in ordine all’assorbimento delle perdite Jp Morgan ha acquistato le proprietà delle azioni senza ricevere alcuna protezione esplicita o implicita dalla Banca». Affermazioni «non rispondenti al vero» secondo i pubblici ministeri che contestano al direttore generale di aver mentito «anche sulla flessibilità dei pagamenti riconosciuti alla stessa Jp Morgan». E di aver provocato un’ulteriore, gravissima perdita finanziaria a Mps.
È uno dei dirigenti che ha descritto Alexandria ai magistrati di Siena.
Ore di deposizione raccolte ai primi di gennaio, alla fine delle quali ha depositato molti atti tra cui lo schema-Alexandria. Ma a parte i documenti consegnati, i tanti che aveva nella sede del Monte sono misteriosamente spariti insieme ai suoi documenti personali.
I magistrati senesi gli hanno chiesto di fare l’autopsia alla finanza derivata made in Siena e lui ha dato persino prova di tutti i warning inviati ovunque ai vari livelli della banca.
Va premesso che il dirigente in questione è stato per anni alla guida di una Filiale Estera del Gruppo Montepaschi e chiede di rimanere anonimo solo perché teme ritorsioni che potrebbero compromettere il suo futuro lavorativo. Anche perché è stato tra i primi dirigenti ad essere licenziato dal nuovo management senza apparente spiegazione e ora è ancora senza lavoro.
A chi lanciò il suo allarme? Snocciola i nomi: dal direttore generale Vigni all’Audit interno, dal capo dei crediti al risk management fino a tutti i capi dell’Area Estero. «Dissi a tutti che Alexandria era un mostro dormiente che si sarebbe risvegliato presto». Reazioni nessuna. Fu preso per visionario. Molti sapevano e arrivarono presto i guai e fu fatto rimpatriare con pochissimo preavviso, tanto che la Financial Services Authority, che regolamenta l’attività finanziaria, inviò una lettera a Rocca Salimbeni nella quale chiedeva perché venisse rimosso. «Ma risposte naturalmente non ne arrivarono».
Come è noto Alexandria venne pianificata dall’Area Finanza diretta da Gianluca Baldassarri che «riceveva ordini dai direttori generali che si sono avvicendati in quegli anni». Perché «nessuno può davvero pensare che fare tutti quei derivati e investire 25 miliardi di euro in Btp poteva essere una decisione assunta dal solo Baldassarri».
Il desk di Londra si occupava della gestione dei fondi di capitale della banca. E in troppe operazioni sono stati usati broker stranieri per intermediare titoli. «La via di utilizzare i broker piuttosto che quella di trattare direttamente con un’altra banca è sicuramente molto poco trasparente». Dietro le commissioni si intravedono ben altre operazioni.
Come funziona l’investimento su un titolo dove c’è un broker come intermediario? «Facciamo l’esempio di un titolo che vale nominalmente 100 milioni e il cui vero valore di mercato sia 97. In questa differenza si infila il diavolo». E il diavolo che fa? «Diciamo che lo si può pagare 98,5, quindi più 1,5, lasciando questo 1,5 al broker intermediario. A questo punto possono capitare due cose: i tassi si abbassano e il titolo sale diciamo fino a 105. La banca ha guadagnato 6,5 milioni ed è contenta. Se invece i tassi si alzano e il prezzo del titolo scende a circa 95 la banca comunque decide di tenerselo fino a scadenza quando sarà rimborsato a 100 e quindi in ogni caso presenterà un profitto di 1,5 rispetto al prezzo pagato. Comunque vada ci guadagnano tutti: il broker, la banca, ma molto meno di quel che avrebbe potuto. Però tanto nessuno se ne accorge».
Tra i broker usati per confezionare Alexandria si è parlato della coreana Coyro, di Lutifin, di Enigma services ma potrebbero non essere tutti. All’ex dirigente chiedo se sa che nel 2007 l’Area finanza di Baldassarri aveva investito decine di milioni di dollari su un prodotto strutturato chiamato Anthracite legato alla performance dei fondi della società londinese Tarchon di Alberto Marolda, fratello di Giovanni che con Raffaele Ricci erano i capi salesman della Dresdner Bank, gli uomini che con Baldassarri pianificarono Alexandria. Annuisce. Chiedo ancora se sa che uno dei consiglieri indipendenti del nuovo Cda di Montepaschi è l’avvocato Michele Briamonte, allievo prediletto di Franzo Grande Stevens, consulente dello Ior e membro dell’advisory board del fondo Tarchon. Risposta secca: «Sembra che le cose facciano veramente fatica a cambiare».