L’indagine della polizia tributaria di milano: Nell’ipotesi delle Fiamme Gialle la contropartita era legata all’acquisto di derivati da parte dell’istituto di credito. Retroscena: I controllori della Fondazione: troppo rischioso seguire l’aumento di capitale.
Gianluca Baldassarri e Matteo Pontone, già responsabili dell’area finanza di Mps e della filiale di Londra della stessa banca senese erano conosciuti come «la banda del cinque per cento perchè su ogni operazione prendevano tale percentuale». Lo ha rivelato Antonio Rizzo, ex funzionario di Dresdner, sentito come testimone nel 2008. E martedì sera si è concluso il colloquio tra i magistrati senesi, che conducono l’inchiesta sulla Banca Mps, e Valentino Fanti, attuale responsabile dell’area segreteria della banca senese e del passato presidente Giuseppe Mussari. Fanti è stato sentito come persona informata dei fatti.
IL VEICOLO – E ancora, scrivono le Fiamme Gialle: «È stato accertato che la Lutifin Services era stata utilizzata quale veicolo per effettuare pagamenti riservati nei confronti di alti dirigenti del Monte dei Paschi di Siena in cambio dell’acquisto da parte dell’istituto di credito da cui dipendevano di un pacchetto titoli all’interno dei quali ve ne erano alcuni (derivati) che presentavano forti perdite per Dresdner Bank».
L’INDAGINE – È quanto scrivono i finanzieri del nucleo di polizia tributaria di Milano in una nota agli atti dell’inchiesta del pm Roberto Pellicano che a breve chiederà il rinvio a giudizio per 18 persone accusate di aver guadagnato in modo illecito su alcune compravendite di titoli. In particolare sotto la lente dei finanzieri c’è l’operazione tra Mps e Dresdner Bank, mediatrice Lutifin, con al centro un derivato da 120 milioni di euro. Nella nota delle Fiamme Gialle si evince che lo scopo dell’operazione «era quello di far ristrutturare il pacchetto a Mps la quale si è occupata in definitiva di sostituire i titoli in sofferenza con altri in salute in modo da consentire a Dresdner di neutralizzare le perdite che stava subendo scaricandole di fatto su Mps». Tra gli indagati per cui verrà chiesto il processo non c’è alcun dirigente dell’istituto senese.
IL PROCURATORE – E anche il procuratore di Siena, Tito Salerno, si è espresso sullo scandalo che ha coinvolto Monte dei Paschi: «Non posso dirvi nulla, la situazione è esplosiva e incandescente, stiamo parlano del terzo gruppo bancario italiano».
SIENA – C’è anche la Fondazione Mps, primo socio al 34% e ora indebitata per 350 milioni dopo essersi svenata nell’ultimo aumento di capitale da 2,2 miliardi dell’estate 2011, sul banco degli imputati per non avere diversificato il patrimonio, restando abbarbicata al 51% secondo le indicazioni della politica senese. E questo nonostante i sindaci del consiglio di amministrazione della Fondazione (la deputazione) avessero lanciato l’allarme: troppo rischioso concentrare il patrimonio (fino a quasi il 90%) su Mps, per di più indebitandosi per 600 milioni con un contratto che non prevedeva coperture contro un calo del titolo.
Una scelta ancor più non avveduta considerando che la Fondazione preseduta da Gabriello Mancini aveva già un precedente prestito sulle spalle per 490 milioni con Credit Suisse e Mediobanca per il famoso bond «fresh», quello servito a Mps per pagare Antonveneta e ora sotto la lente dei magistrati. Ieri anche il ministro dell’Economia, Vittorio Grilli, ha detto che la Fondazione è «in ritardo» nel completare «il percorso di diversificazione del portafoglio e del rischio».
Del parere negativo dei sindaci Giovanni Marabissi (presidente) Luigi Borré (Tesoro) e Anna Molinari – atto rimasto riservato perché interno – il consiglio però non tenne conto. L’allora direttore generale Marco Parlangeli, contrario, venne messo nelle condizioni di andarsene. Dalla Fondazione si giustificano: «C’erano da rispettare le indicazioni del Comune di non scendere sotto il 51%, in quel periodo la Banca d’Italia chiese a tutte le banche aumenti di capitale, il Tesoro ci autorizzò a indebitarci. E poi c’erano gli advisor».
Le banche incaricate, Credit Suisse e Rothschild, però non avrebbero consigliato di seguire l’aumento; avrebbero piuttosto detto: «Visto che hai deciso di farlo, ti diciamo come faresti meglio a indebitarti», racconta un banker che fu protagonista dei fatti. «Il consiglio fu di prendere una protezione in caso di crollo del titolo Mps».
Ma la Fondazione non diede retta agli advisor e scelse un finanziamento in pool di 11 banche coordinate da Jp Morgan, tecnicamente «margin loan»: in sostanza più il titolo scende, più azioni mi dai a garanzia. Solo che le azioni (allora il 51%) già dovevano servire a garantire il precedente prestito. «Anche con il Fresh la Fondazione si accollava il rischio che il titolo scendesse, ma allora il valore era alto e le azioni tutte disponibili», racconta un’altra fonte. Così, quando a fine 2011 Mps in Borsa si avvicinò alla soglia di circa 20 centesimi Palazzo Sansedoni si trovò senza azioni libere (le aveva date man mano tutte in pegno) e dovette rinegoziare i prestiti con Credit Suisse e Mediobanca, che altrimenti si sarebbero prese non meno dell’8% di Mps. E per recuperare in poco tempo più di 600 milioni dovette vendere a poco prezzo i gioielli di famiglia, cioè Intesa Sanpaolo, Mediobanca, Cassa depositi e prestiti.