LA VITA DELL’UOMO PIU’ POTENTE DEL DOPOGUERRA. Dalla collaborazione con De Gasperi ai processi per mafia.
ROMA – «A parte le guerre puniche mi viene attribuito di tutto». Così si raccontava Giulio Andreotti. E ci prendeva in pieno. Forse nessun altro politico è stato l’immagine stessa del potere, nella sua accezione quasi metafisica. Un’entità del dominio come in maniera sublime e, per certi versi melanconica, lo ha rappresentato Paolo Sorrentino nel film Il Divo. Il potere fatto essenza che finisce per rendere inadeguata qualunque definizione, anche le più forti. «Belzebù», «Gobbo Malefico» e mille altre maschere gli sono state cucite addosso nel tentativo, vano, di afferrarlo. Andreotti è riuscito ad avere la meglio su qualunque ritratto, anche il più orripilante. Saranno forse gli storici a dire una parola definitiva su chi è stato realmente. In attesa non resta che mettere in fila la sua lunghissima biografia che da sola racconta un bel pezzo di verità.
TUTTO TRANNE PRESIDENTE – Nato a Roma il 14 gennaio del 1919 è stato ben sette volte Presidente del Consiglio e decine di volte ministro in tutti i dicasteri a disposizione, dalla Difesa agli Interni, dagli Esteri, al Bilancio, alle Partecipazioni Statali. Gli è mancato solo lo scranno più alto, quello della Presidenza della Repubblica alla quale sembrava destinato nel ‘92. Dal 1945 in poi ha sempre avuto un seggio in un’assemblea legislativa. Prima in seno alla Costituente, quindi in Parlamento. Da eletto e poi, a partire dal 91, da senatore a vita. I primi passi in politica furono subito ad altissimo livello. Giovanissimo fu uno dei collaboratori del più grande statista del dopoguerra, Alcide De Gasperi, del quale fu sottosegretario alla Presidenza del Consiglio nel 1947. Al fianco di Aldo Moro sin dai tempi della Fuci, l’organizzazione universitaria dei cattolici, e poi in vari esecutivi e ancora nella Dc. In politica estera Andreotti è stato uno dei fautori più convinti del dialogo di Europa e Stati Uniti con quei regimi politici distanti dalla sua Dc: dall’Unione Sovietica alla Cina. E poi tra i primi a credere in un atteggiamento di apertura ad organizzazioni a suo tempo considerate filo terroristiche come l’Olp di Arafat. In politica interna sostenne l’apertura della Dc a sinistra e, nel 1983, fu scelto come ministro degli esteri del primo governo guidato dal socialista Bettino Craxi. Allo stesso modo non disdegnò mai i contatti, aperti o sotterranei, col Partito Comunista che in alcuni passaggi difficili della sua lunga carriera gli sono pure tornati utili.
IL SANGUE DI MORO – Nella Dc diede vita alla corrente che prendeva il suo nome, circondato da una schiera di politici tra i più i discussi e anche compromessi con la mafia, da Vittorio Sbardella al siciliano Salvo Lima. Controverso il ruolo di Andreotti nella gestione del sequestro Moro. Fu tra i più convinti sostenitori della cosiddetta linea della fermezza rifiutando ogni trattativa con i terroristi. Ma nei suoi memoriali Moro gli riservò i giudizi più severi. «Non è mia intenzione rievocare la sua grigia carriera. Non è questa una colpa –scrive Moro- si può essere grigi ma onesti, grigi ma buoni, grigi ma pieni di fervore. Ebbene on. Andreotti è proprio questo che le manca. Le manca proprio il fervore umano. Quell’insieme di bontà, saggezza, flessibilità, limpidità che fanno senza riserve i pochi democratici cristiani che ci sono al mondo. Lei non è tra questi». Il suo nome fa capolino in tutte le trame di servizi segreti, interne ed internazionali, che lo indicano anche come una delle personalità più gradite agli Stati Uniti e soprattutto ai suoi apparati di intelligence.
GELLI E SINDONA – In tutte le cospirazioni che hanno attraversato l’Italia compare spesso il nome di Andreotti. Rapporti a volte riscontrati come quelli col capo della P2 Licio Gelli e in altri casi solo ipotizzati. Certi invece i legami col bancarottiere siciliano Michele Sindona, che definì addirittura il «salvatore della lira» e in favore del quale intervenne tentando di salvare dal fallimento la sua Banca Privata Italiana. Con Sindona il «divo Giulio» continuò a mantenere rapporti anche durante il periodo della sua latitanza, nonostante fosse all’epoca Presidente del Consiglio.
LA MAFIA E PECORELLI – E poi ci sono le vicende giudiziarie nelle quali viene apertamente chiamato in causa. A cominciare da quelle di mafia, con i pentiti che raccontano dei rapporti con gli «esattori siciliani», i cugini Nino ed Ignazio Salvo e le frequentazioni con boss di prima grandezza. Il pentito Balduccio Di Maggio raccontò addirittura di un bacio tra Andreotti e il «capo dei capi» Totò Riina. A Palermo finisce sotto processo per favoreggiamento alla mafia. In primo grado, il 23 ottobre 99, viene assolto perché il fatto non sussiste. Più articolata invece la senza d’appello, emessa il 2 maggio del 2003, che stabilisce che avrebbe favorito la mafia fino al 1980 (ma il reato era già prescritto) e assolto per i fatti commessi successivamente. La sentenza parla testualmente di «un’autentica, stabile ed amichevole disponibilità dell’imputato verso i mafiosi fino alla primavera del 1980». Ma Andreotti è stato processato anche per l’omicidio del giornalista Mino Pecorelli, che sul suo periodico Op, lo attaccava continuamente. Al processo celebrato a Perugia venne assolto in primo grado, condannato a 24 anni in appello, ma definitivamente prosciolto in Cassazione.